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Traumatologia sportiva
 
 
Le lesioni cartilaginee
a cura di: Bisciotti Gian Nicola Ph.D
 

Le lesioni cartilaginee sono divenute di estrema attualità in ambito sportivo. Infatti, mentre se da un lato il naturale processo d’invecchiamento comporta un fisiologico deterioramento delle cartilagini articolari,  dall’altro è altresì vero che le attività sportive intense possono logorare e danneggiare la cartilagine articolare anzitempo, per un fenomeno il più delle volte di “overuse” oppure, anche se più raramente, di tipo traumatico. L’enorme sviluppo dell’imaging, soprattutto della risonanza magnetica, a cui abbiamo potuto assistere in questi ultimi anni, ha indubbiamente contribuito in maniera sostanziale all’odierna attualizzazione delle lesioni cartilaginee, soprattutto nello sportivo, rendendone agevole la diagnosi che era invece molto difficile, se non  impossibile, negli anni in cui si aveva a disposizione solo la radiologia convenzionale, od al più l’artrografia.
La cartilagine che ricopre le articolazioni è chiamata “ialina” e rappresenta il tipo di cartilagine più diffuso Il suo nome deriva dal fatto che quest’ultima appare come una massa traslucida, opalescente, di colore biancoperlaceo; come d’altro canto ci indica la sua etimologia: ialina deriva infatti dal greco “hyalos” che significa vetro. Il suo spessore varia da articolazione ad articolazione e va da meno di 1 millimetro, ai 6 millimetri circa come ad esempio possiamo ritrovare nell’articolazione femoro-rotulea. L’abbozzo dello scheletro dell’embrione e del feto è costituito quasi del tutto da cartilagine ialina che, nel corso dei processi di ossificazione, attraversa un processo di calcificazione e viene sostituita dal tessuto osseo. Nell’individuo adulto, la cartilagine ialina riveste non solo le superfici articolari ma forma anche le cartilagini costali, gli anelli tracheali, gran parte delle cartilagini laringee, le cartilagini bronchiali e le cartilagini nasali. Il compito della cartilagine ialina che ricopre le articolazioni è quello di favorire lo scorrimento dei due capi articolari durante il movimento.
La cartilagine ialina è formata dalla matrice e dai condrociti. La matrice (o sostanza intercellulare) è ricca di fibre di collagene, di proteoglicani, acido ialuronico e glicoproteine, che costituiscono la sostanza fondamentale. I condrociti (le cellule che compongono la cartilagine), sono isolati nella matrice o disposti in piccoli gruppi.
Il tessuto cartilagineo non è vascolarizzato ed il nutrimento dei condrociti avviene per un fenomeno di diffusione del liquido sinoviale. Sotto carico infatti la cartilagine si comporta come una vera e propria spugna, disperdendo il liquido sinoviale ricco di cataboliti condrocitari e riacquistando il volume originario, nel successivo momento di scarico, riassorbendo contestualmente il liquido rinnovato di elementi nutritivi

Figura 1: cartilagine ialina. Colorazione con emallume-eosina.

Attualmente per ciò che riguarda la classificazione dei danni cartilaginei si fa normalmente riferimento alla "stadiazione" dell'ICRS (International Cartilagine Repair Society). Questa classificazione prevede:

- un grado 0 (normale)
- un grado 1 (quasi normale: lesione superficiale)
- un grado 2 (anormale: lesione estesa fino a <50% dello spessore della cartilagine)
- un grado 3 (molto anormale: difetto >50%)
- un grado 4 (molto anormale: lesione osteocondrale


Figura 2: rappresentazione grafica dei diversi gradi di danno cartilagineo secondo la ICRS.

Il trattamento conservativo

In caso di danni cartilaginei modesti il primo trattamento è senza dubbio di tipo conservativo. In questo caso si tratta soprattutto di supportare muscolarmente l’articolazione, in modo tale da fornirle una sorta di “ammortizzatore naturale” che edulcori il carico sulla cartilagine sofferente. A questo tipo di trattamento si aggiungono anche interventi di tipo farmacologico basati essenzialmente su iniezioni articolari di acido ialuronico ad alto peso molecolare, oppure sulla nuova viscosupplementazione a base di polinucleotidi (vedi articolo specifico nella sezione “Ginocchio, le lesioni da sovraccarico). Un’ulteriore possibilità è rappresentata dall’utilizzo, sempre tramite iniezione intra-articolare dei fattori di crescita piastrinici (PRP, platelet rich plasma), ossia un centrifugato ottenuto dal plasma del paziente ricco di fattori di crescita (vedi articolo specifico nella sezione “Lesioni muscolari”). I condroprotettori per os sembrano dare blandi benefici su lunghi periodi di assunzione.

Il trattamento chirurgico

In caso di problemi cartilaginei più gravi od in caso di fallimento del trattamento conservativo, occorre considerare un possibile approccio di tipo chirurgico. Attualmente le tecniche chirurgiche adottabili possono essere sostanzialmente ricondotte a due categorie:
Nella prima categoria ritroviamo tutte quelle tecniche il cui intento sia di stimolare la riparazione della cartilagine lesionata. In questo caso il tessuto che si ottiene non è rappresentato da nuova cartilagine ialina, bensì da fibro-cartilagine, ossia una cartilagine di qualità biologica e meccanica inferiore ma comunque accettabile e valida per risolvere il problema condrale.
Nella seconda categoria ritroviamo invece tutte quelle tecniche dedicate alla rigenerazione ex novo della cartilagine ialina.

In entrambe le categorie possiamo reperire diverse opzioni chirurgiche che di seguito descriveremo brevemente.

Shaving cartilagineo o condroabrasioni

Figura 3: visione artroscopia di shaving cartilagineo

È un intervento di minima, il cui scopo è quello di regolarizzare la superficie cartilaginea lesionata. Infatti, nei primi stadi del problema condrale, la cartilagine subisce delle sfrangiature che, oltre che entrare in conflitto meccanico con l’articolazione, sono foriere del processo infiammatorio ed algico. Grazie a questa tecnica, queste ultime vengono appunto rimosse nel tentativo di regolarizzare la superficie condrale. In sostanza il razionale di applicazione dello shaving è quello di stabilizzare i margini lesionali bloccando in tal modo il rilascio di citochine (sostanze responsabili del processo infiammatorio), e le conseguenti sinoviti. Questo tipo di trattamento non è tuttavia risolutivo e non presenta né capacità riparative né, tantomeno ovviamente, rigenerative.

Trattamento delle lesioni condrali tramite radiofrequenze

Dalla seconda metà degli anni’90 si è iniziato ad introdurre nell’ambito della chirurgia artroscopia gli strumenti a radiofrequenza (RFE), di tipo monopolare e bipolare.. Gli strumenti a radiofrequenza permetterebbero di regolare i margini della lesione con maggior precisione ed in maniera anatomicamente più regolare di quanto non si possa fare con i normali shavers, questo permetterebbe quindi di evitare ulteriori frammentazioni della cartilagine stessa. Nonostante l’utilizzo di tali strumentazioni si sia rapidamente diffuso, i pareri sulla loro idoneità ed efficacia sono alquanto discordi. Infatti, da un canto alcuni Autori sostengono che l’utilizzo degli RFE nell’ambito delle lesioni cartilaginee sia da considerarsi sicuro ed efficace, soprattutto nelle lesioni cartilaginee di basso grado che presentino margini instabili in cui l’obiettivo primario sia la stabilizzazione di questi ultimi evitando, nel contempo, la formazione di nuovi frammenti, mentre dall’altro troviamo altri Autori che suggeriscono un cauto impiego di questa strumentazione paventando, soprattutto per le strumentazioni bipolari, la possibilità di causare la necrosi dei condrociti. Anche questo tipo di trattamento non è risolutivo e non presenta capacità riparative.

Figura 4: regolarizzazione lesione cartilaginea con radiofrequenze (Istituto Gaetano Pini di Milano, www.gpini.it).

Microfratture

Figura 5: visione artroscopia di intervento di microfratture.

In questa tecnica vengono effettuate, sulla zona di sofferenza cartilaginea, numerose piccole microfratture, tra loro distanti circa 3-4 millimetri, allo scopo di ottenere il sanguinamento dell’osso sub-condrale. Il midollo osseo che contiene cellule staminali diffonde nell’area danneggiata e forma un grumo, detto “super coagulo” . Il super coagulo rilascia cellule staminali, che si differenziano in cellule cartilaginee e formano gradualmente nuovo tessuto. Tuttavia, il nuovo tessuto è costituito di cartilagine cicatriziale, ossia fibro-cartilagine e non vera e propria cartilagine ialina, le cui caratteristiche possono essere comunque accettabili. Le microfratture fanno parte delle tecniche di riparazione cartilaginea. I tempi di ritorno all’attività sportiva sono di circa 4 mesi.

Trapianto di condrociti autologhi

Figura 6: i diversi step dell’intervento di trapianto di condrociti autologhi.


A e B) Matrice di collagene con condrociti
C)Applicazione di colla di fibrina;
D)Applicazione del trapianto cartilagineo

Figura 7: grave lesione cartilaginea della rotula trattata con trapianto autologo di condrociti su tessuto bioingegnerizzato (Istituto Gaetano Pini di Milano www.gpini.it )

Questa tecnica, messa a punto dall’èquipe svedese del Prof. Peterson, è ora diffusamente utilizzata. L’intervento si svolge attraverso due distinti tempi chirurgici. Nel primo tempo chirurgico si preleva dal paziente una piccola porzione cartilaginea in una zone non soggetta al carico ( per il ginocchio ad esempio a livello della faccia esterna della troclea), e la si immette in coltura ed espansione in laboratorio. Successivamente, quando la matrice cartilaginea (rappresentata da una matrice tridimensionale di acido ialuronico, collagene, alginato) e’ ultimata, ossia dopo circa dopo un mese, si procede al secondo tempo chirurgico, nel qual la si reimpianta al paziente al fine di colmare i difetti del tissutali. Tale metodica, oltre ad essere utilizzata per il ginocchio, può essere una valida terapia anche per i difetti cartilaginei della caviglia. In genere sono esclusi da questo tipo d’intervento i pazienti over 50. Questo tipo d’intervento, che fa parte delle tecniche di rigenerazione, prevede l’astensione dal carico per circa 40 giorni e la ripresa dell’attività sportiva ad alto impatto solamente dopo circa 10 mesi.

Innesti auto condrali autologhi (OAT) o mosaico-plastica

La tecnica OAT trova la sua applicazione quando la porzione di cartilagine mancante è più vasta ed il danno è profondo. Questa tecnica prevede l’asportazione di diversi piccoli tasselli di osso ricoperto da cartilagine (prelevato da una zona non soggetta a carico della stessa articolazione) che vengono poi reinnestati nella zona di lesione, creando una sorta di mosaico (da cui appunto il nome di mosaico-plastica) composto dai vari tasselli prelevati. In genere si utilizza per lesioni profonde e di diametro non superiore a 2cm. In tal modo il difetto viene colmato con cartilagine ilaina, anche se attorno ai “tasselli” può comunque essere presente fibrocartilagine. Questo tipo d’intervento, prevede l’astensione dal carico per circa 40 giorni e la ripresa dell’attività sportiva ad alto impatto dopo circa 6 mesi.

Scaffold biometici

Una delle tecniche maggiormente innovative nel campo della riparazione chirurgica dei danni condrali, è rappresentata dagli scaffold biomimetici, ossia da supporti sintetici costituiti da idrossiapatite e fibre di collagene. Questa tecnica viene effettuata previo un unico tempo chirurgico, durante il quale lo scaffold viene sagomato in base all’entità del difetto cartilagineo. Viene inoltre preparata la zona d’impianto dello scaffold, nella quale quest’ultimo viene inserito a press-fit per via artrotomica. Grazie al sanguinamento dell’osso sub condrale lo scaffold s’imbibisce di cellule totipotenti aderendo perfettamente alla zona lesionale. Le cellule staminali toti potenti colonizzeranno poi lo scaffold stesso differenziandosi in condrociti. L’intervento prevede l’astensione dal carico per un periodo di circa 50-60 giorni e la ripresa dell’attività sportiva ad alto impatto dopo circa 6 mesi.

Figura 8: scaffold sintetico osteocondrale “Maioregen” (Istituto Gaetano Pini di Milano, www.gpini.it)


 

Figura 9: scaffold sintetico misto a fattori di crescita (Istituto Gaetano Pini di Milano, www.gpini.it).

Il trapianto di cellule mesenchimali autologhe


 

Figura10 : è stato recentemente dimostrato che le cellule staminali mesenchimali del midollo osseo possono dar vita a differenti tipi di cellule differenziate, inclusi i condrociti.

Soprattutto in considerazione dell'incremento della popolazione anziana la ricerca nell’ambito delle strategie terapeutiche biologiche è in enorme sviluppo. Questo potrà un domani, non lontano, fornire una valida risposta alle malattie degenerative del sistema scheletrico, una per tutte l’artrosi. L’obiettivo della cosiddetta “medicina rigenerativa” è quindi quello della ricostruzione biologica dei tessuti che costituiscono l’apparato locomotore. In quest’ottica la frontiera ad oggi maggiormente innovativa è rappresentata dalla possibilità di utilizzare cellule staminali mesenchimali adulte differenziate in senso condrogenico. Le cellule staminali sono cellule che ad ogni divisione cellulare danno origine ad una cellula identica a se stessa ed ad una “maggiormente commissionata”. Con questa divisione di tipo asimmetrico viene mantenuto inalterato il numero di cellule staminali, e contestualmente le cellule maggiormente commissionate, dividendosi ulteriormente, daranno origine ad un numero rilevante di cellule mature che compongono i vari tessuti. Le cellule staminali si distinguono in “totipotenti”, capaci di trasformarsi in qualsiasi tipo di tessuto; “pluripotenti”, che si trasformano solo in alcuni tipi di tessuti ed “unipotenti”, che possono dar luogo soltanto ad un tipo cellulare. Le cellule staminali mesenchimali rappresentano una popolazione cellulare di tipo pluripotente che, se correttamente indirizzate possono dare origine a cellule con caratteristiche di differenti tessuti come quello osseo, adiposo ed appunto cartilagineo, solo per citarne alcuni. Le cellule staminali mesenchimali sono contenute all'interno dello stroma midollare. Nella tecnica di trapianto di cellule mesenchimali autologhe, le cellule staminali vengono prelevate dal midollo osseo del paziente a livello della cresta iliaca e successivamente introdotte su di un supporto biologico al quale vengono aggiunti fattori di crescita piastrinici (PRP) ricavati dal sangue del paziente stesso. In genere sono esclusi da questo tipo d’intervento i pazienti over 50. L’intervento prevede l’astensione dal carico per un periodo compreso generalmente tra i 30 ed i 45 giorni. La ripresa dell’attività sportiva ad alto impatto è consentita in genere dopo 12 mesi dall’intervento.

La riabilitazione

La durata del periodo di riabilitazione dipenderà, ovviamente, dal tipo di intervento effettuato, ma in ogni caso rispetterà cinque fasi fondamentali.

-Nella prima fase, ossia quella immediatamente post-chirurgica, l’obiettivo è la riduzione del dolore e del gonfiore post-operatorio.
-Nella seconda fase l’obiettivo è rappresentato dal recupero della completa articolarità.
-Nella terza fase l’obiettivo primario è il conseguimento del tono-trofismo muscolare dell’arto leso.
-Nella quarta fase saranno la propriocettività e la coordinazione neuro-muscolare a rappresentare i principali obiettivi.
-Infine, nella quinta ed ultima fase, molto spesso la più delicata ed importante, il traguardo finale è rappresentato dal ritorno alla gestualità dell’attività sportiva specifica.
I carichi e le sedute stesse andranno accuratamente dosati, la cartilagine infatti si presenta più resistente all’entità del carico compressivo che non alla durata temporaledi quest’ultimo. Un giusto stimolo meccanico quindi significherà un’importante spinta adattiva funzionale della neo-cartilagine o del super-cougulo nella sua fase di differenziazione in fibro-cartilagine, mentre un carico errato ed eccessivo, spesso può significare il fallimento dell’impianto. Per questo motivo nei nostri percorsi terapeutici attuiamo una severa e scrupolosa scelta dei mezzi (allenamento isometrico, a resistenza elastica, isotonico, isocinetico propriocettivo ecc) ma anche delle superfici di lavoro (acqua, sabbia, erba, tartan ecc) su cui il paziente effettuerà il suo piano di lavoro. Particolare attenzione viene posta nella fase finale di ripresa del gesto tecnico, che spesso rappresenta la tappa più ostica da conseguire.


 

 

 
 
 
   
                     
                     
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