Gli ultimi Mondiali verranno
ricordati per diverse
peculiarità, tra cui il
fatto di essere stati organizzati
per la prima volta
da un paese africano e di essere stati
vinti, sempre per la prima volta, dalla
Spagna. Un’altra etichetta assegnata,
però, non ci convince del tutto: quella
di “Mondiali in altitudine”.
Il Sudafrica ha presentato sedi delle
partite ad altitudini variabili, che andavano
dal livello del mare di Città del
Capo, Durban e Port Elizabeth ai 1.753
metri di Johannesburg. Quanto questa
eterogenicità potesse influenzare dal
punto di vista medico-fisiologico gli
atleti è stato oggetto di diversi dibattiti
e moltissime squadre si sono affidate a
ricercatori e fisiologi per organizzare
l’approccio ideale alla competizione.
Nel convegno medico della FIFA tenutosi
in Sudafrica prima dei Mondiali,
era stato sottolineato come le altitudini degli stadi nei quali si sarebbero svolte
le partite non sarebbero state in grado
di avere un impatto significativo sulla
performance e sulla salute degli atleti,
in quanto effetti rilevabili si hanno solo
sopra i 2.000-2.500 metri e un effetto
critico sulla performance si ottiene
solo sopra i 3.000 metri. Inoltre, anche
eventuali effetti minimi potevano essere
completamente debellati con un
minimo di acclimatazione.
Una disamina fisiologica
È universalmente noto come la riduzione
della pressione parziale dell’O2
che si registra ad alte quote penalizzi
soprattutto le attività di tipo aerobico e
che, quindi, per mantenere un buon
rendimento atletico in tal senso, si necessita
di un particolare processo di
adattamento funzionale che va sotto il
nome di “acclimatazione”. Tutti sappiamo
che la composizione dell’aria atmosferica
non varia sotto l’effetto
dell’altitudine ma, al contrario, la pressione
barometrica totale (PB) diminuisce
in funzione dell’altezza (figura 1).
A questo, consegue il fatto che la pressione
parziale di O2 diminuisca proporzionalmente
alla riduzione della PB.
Alla diminuzione della pressione parziale
di O2 consegue una riduzione
della saturazione in O2 del sangue arterioso
e quindi una diminuzione dell’apporto
di O2 ai tessuti, che diviene
particolarmente evidente in condizioni
di lavoro fisico intenso (figura 2).
Questo fenomeno è dettato dal fatto
che l’O2 contrae un rapporto chimico
nei confronti dell’emoglobina, tale da
determinare una completa saturazione
del sangue in O2, solo quando la pressione
parziale di quest’ultimo supera i
100 mm Hg, come si può facilmente
notare dalla figura 2. Ma da che quota
questo meccanismo diviene particolarmente
evidente, quindi fortemente penalizzante,
per la performance atletica?
Un decremento della potenza aerobica,
dell’ordine di un 5-8%, si registra già
nei soggetti non allenati a quote comprese
tra i 1.500 e i 2.000 metri s.l.m.
(La Torre e coll., 2010). È interessante
notare come, paradossalmente, negli
atleti di alto livello nell’ambito delle
discipline di resistenza, la diminuzione
della potenza aerobica sia già evidente
a quote inferiori, raggiungendo una riduzione
di circa il 7-8% a quote minori
di 1.000 e arrivando sino a un massimo
di circa il 15% quando l’attività è
svolta a 2.000 metri s.l.m. Questo particolare
tipo di risposta fisiologica sembrerebbe
ascrivibile al fatto che la
maggior gittata cardiaca e il maggior
flusso ematico polmonare degli atleti
di alta prestazione delle discipline di
resistenza non sono sufficientemente
compensati da un’adeguata capacità di
diffusione polmonare, soprattutto nel
caso in cui il gradiente di diffusione
dell’O2 sia ridotto (Torre-Bueno e coll.,
1985;Wagner, 1986; La Torre e coll.,
2010). Pur ammettendo che questo tipo
di risposta, ossia che gli atleti con un
maggiorVO2max siano quelli maggiormente
penalizzanti anche nell’ambito
di una disciplina come il calcio, ipotesi
peraltro da verificare, il valore assoluto
diVO2max resterebbe comunque il parametro
maggiormente discriminante
nell’ambito della performance. In altri
termini, anche se in senso relativo un
atleta maggiormente dotato in termini
diVO2max viene penalizzato in misura
superiore rispetto a un soggetto di capacità
minore sarà comunque quest’ultimo
ad avere, in ogni caso, una
prestazione inferiore in senso assoluto.
Proviamo, infatti, a valutare, da un
punto di vista pratico, due casi estremi.
Nel primo caso consideriamo un calciatore
molto dotato aerobicamente,
con unaVAM di 18 km/h corrispondente
a unVO2max di circa 63 ml.min-
1.kg-1 e che subisca una riduzione massima del proprio VO2max (quindi
di circa il 13% a 1.700 metri, quota
massima alla quale si sono svolte alcune
partite negli ultimi mondiali), in
tal caso il suo VO2max residuo risulterà
pari a circa 55 ml.min-1.kg-1.
Nel
secondo caso, invece, prendiamo in
considerazione un giocatore molto
meno dotato dal punto di vista aerobico,
la cui VAM sia, ad esempio, solamente
15.5 km/h e quindi
corrispondente a un VO2max di circa
54 ml.min-1.kg -1 e poniamo il caso di
una perdita di potenza aerobica minima
(ossia del 5%). Il valore di
VO2max residuo sarà uguale a circa 51
ml.min-1.kg-1, che risulterà comunque
minore di quasi il 8% rispetto al
VO2max residuo del giocatore maggiormente
dotato aerobicamente e che
aveva subito la massima penalizzazione
in termini di perdita di potenza
aerobica dovuta alla quota.
Ma quali sono state le reali condizioni
di quota alle quali si sono disputati gli
ultimi campionati del mondo di calcio
in Sudafrica?
Come possiamo vedere
dalla tabella A, la quota massima alla
quale si sono disputate alcune partite
degli ultimi Mondiali corrispondeva ai
1.753 metri s.l.m. di Johannesburg.
Se
a questo punto consideriamo i 1.500
metri s.l.m. (La Torre e coll., 2010)
come limite di quota oltre la quale cominciano
a diventare evidenti i cambiamenti
fisiologici indotti
dall’altitudine, nella lista rimangono
solamente 3 stadi: il FNB Stadium e
l’Ellis Park Stadium di Johannesburg
(1.753 metri s.l.m.) e il Royal Bafokeng
Stadium di Rustenburg (1.500
metri s.l.m.).
Se calcoliamo il numero
di partite giocate in questi tre stadi,
ossia il numero di gare che possiamo
fisiologicamente considerare come influenzate
dall’effetto altitudine (tabelle
B e C), possiamo constatare che
solamente il 29.7% delle partite totali
ricadono in quest’ambito.
Tuttavia, considerando la natura fisiologica
del calcio, è necessario prendere
in considerazione la capacità di
effettuare sprint ripetuti, ossia la cosiddetta
Repeated Sprint Ability (RSA).
La letteratura scientifica mostra come
vi sia un decremento della performance
nell’esercizio intermittente basato
sugli sprint in funzione
dell’altitudine (Brosnan e coll., 2000;
Feriche e coll., 2007). Il decremento
della RSA dovuto all’altitudine è ovviamente
molto meno facilmente
quantificabile rispetto al decremento
del VO2max indotto da quest’ultima.
La perdita di prestazione causata dalla
quota sulla RSA dipende, infatti, dalla
lunghezza dello sprint stesso e, soprattutto,
dalla ratio “durata dello
sprint/durata del recupero” (come si
nota facilmente dal grafico riportato in figura 3). Al di là di queste obiettive
difficoltà di esatta quantificazione del
fenomeno, possiamo ragionevolmente
ipotizzare uno scadimento della performance,
nel corso di Repeated Sprint
Exercise, pari a circa il 2.5% ogni
1.000 metri di quota (Levine e coll.,
2002).
Infine, è interessante sfatare un luogo
comune riguardo la fisiologia dell’acclimatazione,
ovvero il momento migliore
per arrivare in modo da
minimizzare i possibili effetti negativi
dell’altitudine. Due differenti approcci
sono emersi: il primo, quello di
arrivare meno tempo possibile prima
della competizione, in modo da limitare
gli effetti negativi dell’altitudine, e
il secondo, quello di salire in quota alcuni
giorni prima dell’evento sportivo
per ottenere un’adeguata acclimatazione.
Secondo la prima teoria, la performance
avrebbe un andamento simile a
una U, con due picchi registrabili immediatamente
dopo l’arrivo e dopo un
adeguato periodo di tempo di acclimatazione.
Al contrario, la seconda ipotesi
implicherebbe una relazione
diretta tra l’aumento della prestazione
e i giorni di permanenza in altura, fino
a un picco di completa acclimatazione.
Un’interessante ricerca effettuata su
dei giocatori di rugby ha dimostrato
come, a seguito di un trasferimento a 1.600 metri (ossia circa l’altezza di Johannesburg),
la prestazione nello shuttle
run test fosse ridotta del 37, 18 e 14
per cento (in confronto alla prestazione
a livello del mare) rispettivamente
a 6, 18 e 47 ore dopo l’arrivo
(Wenston et al., 2001). Inoltre, anche
considerando periodi più lunghi, esiste
l’evidenza di come l’acclimatazione
migliori la performance di ciclisti a
2.340 metri fino a tre settimane (Schuler
et al., 2007). In conclusione, la letteratura
evidenzierebbe come si
verifichi un miglioramento costante
della performance con l’aumentare del
periodo di acclimatazione. Quindi
l’approccio di arrivare poco prima dell’impegno
sportivo non avrebbe alcun
fondamento in fisiologia dell’altitudine.
In effetti, nel Consensus statement
on playing football at different
altitude (Bärtsch et al., 2008) viene
formalmente formulata la raccomandazione
di osservare, a quote superiori
ai 1.500 metri s.l.m, un breve periodo
di acclimatazione, compreso tra i 3 e i
5 giorni, per ottenere delle condizioni
fisiologiche ideali alla peak performance.
Alla fine di questa breve disamina sui
possibili effetti fisiologici indotti dalla
quota agli ultimi Campionati del
mondo di calcio giocati in Sudafrica
possiamo, quindi, evincere che il numero
totale delle partite giocate in
stadi in cui l’effetto quota potesse essere
fisiologicamente apprezzabile è
stato relativamente esiguo, a fronte invece
a una percentuale (più che doppia)
di match giocati in condizioni
ambientali non influenzate dall’altitudine.
In ogni caso, alle altitudini considerate,
l’effetto indotto da queste
ultime non è stato tale da pregiudicare
la performance dal punto di vista fisiologico.
Tuttavia, anche ad altitudini piuttosto
modeste occorre considerare l’effetto
che la diminuzione dell’intensità dell’aria
può avere sulla traiettoria del pallone.
Le due componenti della forza
aerodinamica totale che agiscono sul
pallone nella fase di volo sono la drag
force e la lift force, i cui coefficienti
sono direttamente proporzionali alla
densità dell’aria, che decresce approssimativamente
del 3% ogni 305 metri di
altitudine. Per questo motivo, una palla
che devia di 4 metri a livello del mare
devierà di circa 0.4 metri in meno a
1.000 metri e 0.8 metri in meno a 2.000
metri; sempre per la stessa ragione un
lancio di 30 metri a livello del mare
sarà di quasi 33 metri a 1.000 di altitudine
e di quasi 36 metri a 2.000 metri
s.l.m. Tutto questo può obiettivamente
rendere difficoltoso giudicare la corretta
traiettoria del pallone e conseguentemente
effettuare con precisioni
passaggi e stop per un giocatore, nonché
falsare la scelta decisionale del portiere
(Craig et al., 2005; Bärtsch et al.,
2008). È anche importante sottolineare
il fatto che la capacità di adattamento
neurale in termini di anticipazione motoria
non è un processo immediato, ma
richiede un periodo di adattamento alle
nuove condizioni ambientali piuttosto
lungo e articolato (McSharry, 2007).
Questo particolare aspetto rappresenta,
a nostro giudizio, l’elemento di maggior
disturbo causato dalla quota nel
corso di questa edizione deiMondiali.
I giocatori con elevatoVO2max sono
stati, in senso relativo, probabilmente i
più penalizzati dall’effetto quota anche
se, in senso assoluto, la loro prestazione
è stata potenzialmente superiore a
quella di giocatori con caratteristiche
aerobiche minori verosimilmente meno
penalizzati dall’altitudine stessa.
Considerazioni
inerenti il training
Oltre a quanto sopra esposto, possiamo
trarre alcune altre indicazioni riguardo
le diverse metodologie di lavoro in altitudine,
rapportando queste ultime alla
prestazione nell’ambito del calcio. È
importante notare come le considerazioni
che seguono siano state evidenziate
anche dal documento del Consensus
statement on playing football at different
altitude (Bärtsch e coll., 2008).
Metodo denominato “dormire e vivere
in altitudine e allenarsi a bassa
quota”
Questa metodologia non sembra particolarmente
raccomandabile nel caso in
cui si debba giocare a quote moderate o
elevate, dal momento che i benefici teorici
di questo tipo di lavoro non hanno
per ora, nell’ambito del calcio, alcun
evidenza scientifica.
L’esposizione ipossica intermittente a
riposo
Il cosiddetto intermittent hypoxic exposure
at rest concept, ottenuto attraverso
l’utilizzo di particolari macchinari che
simulano le differenti condizioni dell’aria
ispirata corrispondenti alle diverse
quote, non è consigliabile dal
momento che non migliora la performance
calcistica.
Metodo denominato “dormire e vivere
a bassa quota e allenarsi ad alta
quota”
Non è consigliabile adottare questo
metodo di lavoro quando lo scopo è
quello di preparare una partita sia a
quota moderata sia elevata, dal momento
che gli effetti di tale metodologia
di lavoro non sono stati ancora
sufficientemente valutati nell’ambito
degli sport di squadra.
Conclusioni
È innegabile che l’altitudine giochi un
importante ruolo nella fisiologia dell’esercizio.
È stato dimostrato come
fornisca un vantaggio significativo per
le squadre allenate in quota quando
debbano giocare sia ad alta sia a bassa
altitudine e che i team allenati a bassa
quota si acclimatano con difficoltà, riducendo
la performance (Sharry,
2007). Per queste ragioni nel 2007 la
FIFA ha bandito le partite internazionali
giocate ad alta quota (sopra i
2.500 metri). Riguardo i Mondiali giocati
in SudAfrica, non possiamo esimerci
da considerazioni fisiologiche
riguardo i possibili effetti dell’altitudine,
seppur modesti. D’altra parte,
però, considerando i molteplici fattori
che possono influenzare la prestazione
e, ancor più, il risultato nel calcio, possiamo
affermare che l’effetto altitudine,
in Sudafrica, abbia avuto un
ruolo non determinante.
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