La pubalgia dello sportivo: inquadramento clinico e strategie terapeutiche
Bisciotti
G.N. Ph D.
Cattedra
di Riabilitazione Funzionale dello Sportivo, Facoltà di
Scienze dello Sport dell’Università Claude Bernard di Lione
(F)
Centro di
Ricerca e d’Innovazione per lo Sport, Facoltà di Scienze
dello Sport dell’Università Claude Bernard di Lione (F)
Abstract
La
pubalgia è una patologia di difficile e controversa
interpretazione, soprattutto in virtù della complessità
anatomica della regione pubica, nonché del frequente
sovrapporsi di diverse ed ulteriori patologie che rendono il quadro
clinico spesso non chiaro. La prima parte di questa lavoro passa in
rassegna le differenti interpretazioni, e le diverse scuole di
pensiero, riguardanti le variegate forme cliniche. In seguito viene
illustrato il protocollo conservativo maggiormente indicato nel
quadro pubalgico. Infine, vengono descritte le tecniche chirurgiche a
tutt’oggi maggiormente utilizzate.
Parole
chiave: pubalgia, patologia parieto-addominale, adduttori, parete
addominale, riabilitazione
Introduzione.
La
pubalgia è una patologia la cui epidemiologia resta poco
chiara, soprattutto in ragione della complessità di tipo
anatomico della regione pubica e del frequente sovrapporsi, al quadro
clinico, di altri tipi di patologia (Bouvard e coll., 2004). Anche il
termine stesso di pubalgia si presenta, secondo alcuni Autori, come
ambiguo, o per lo meno riduttivo e comunque non consono alla
complessità della patologia in questione (Vidalin e coll.,
2004). A dispetto di questa “disomogeneità concettuale”,
sia in termini diagnostici, sia per ciò che riguarda i
possibili interventi terapeutici, la pubalgia è divenuta, da
patologia tipica dei soli atleti di alto profilo agonistico, un
problema sempre più diffuso ad ogni livello sportivo, tanto da
interessare attualmente soprattutto gli atleti di livello intermedio,
in ragione delle condizioni di pratica spesso non idonee ad una sua
prevenzione (Puig e coll., 2004). La prima diagnosi di pubalgia si
deve a Spinelli e risale a più di settanta anni fa (Spinelli,
1932), da allora non ha mai smesso di suscitare polemiche
interpretative e concettuali ( Irschad e coll., 2001). Da quanto
reperibile in bibliografia, in Europa le attività sportive
maggiormente a rischio sarebbero rappresentate in primo luogo dal
football e, ad un livello minore, dall’ hockey, dal rugby e dalla
corsa di fondo (Arezky e coll., 1991; Berger, 2000; Durey e Rodineau,
1976; Durey, 1987; Ekstrand e Hilding, 1999: Gibbon, 1999; Gilmore,
1998, Le Gall, 1993; Volpi, 1992; Gal, 2000) . Tuttavia, occorre
sottolineare che nessuno dei lavori citati, rapporta l’incidenza
della patologia al numero dei tesserati nelle varie discipline
sportive in questione, e che, soprattutto, la maggior parte di questi
studi sarebbe scartata se si seguissero i criteri minimi di una meta
analisi (Orchard e coll., 2000). In ogni caso nell’ambito del
calcio esistono senza dubbio molti gesti tecnici che possono favorire
l’insorgenza della patologia: salti, dribbling, movimenti di
cutting in generale, contrasti in fase di gioco effettuati in
scivolata ( e quindi con gamba abdotta e muscolatura abduttoria in
tensione), costituiscono indubbiamente dei fattori che causano forti
sollecitazioni a livello della sinfisi pubica, innescando un
meccanismo di tipo sinergico e combinato tra muscolatura abduttoria
ed addominale (Benazzo e coll., 1999). Oltre a ciò, il gesto
stesso del calciare e la corsa effettuata su terreni che possono
risultare in un certo qual modo sconnessi, costituiscono ulteriori
fattori di intensa ed abnorme sollecitazione funzionale della sinfisi
pubica (Benazzo e coll., 1999; Scott e Renström, 1999). Sempre a
questo proposito è importante ricordare la teoria formulata e
proposta da Maigne (1981), basata sullo squilibrio funzionale nel
quale si trova ad operare meccanicamente la colonna del calciatore
costretto, dalle esigenze biomeccaniche di gioco, ad un costante
atteggiamento iperlordotico. Questa particolare situazione provoca, a
livello della cerniera dorso-lombare, un conflitto tra le
articolazioni vertebrali ed il piccolo ed il grande nervo
addomino-genitale, responsabile, quest’ultimo, dell’innervazione
sensitiva della regione inguinale.
I
quadri clinici
I quadri
clinici inerenti la patologia pubalgica, vengono distinti in base al
tipo di lesione anatomo-patologica ed alla sintomatologia riportata
del paziente. Tuttavia, molto spesso diagnosi imprecise, alle quali
conseguono degli inadeguati interventi terapeutici, fanno della
pubalgia una patologia molto invalidante che, a volte, costringe
l’atleta a lunghe sospensioni dall’attività sportiva, che
possono talvolta arrivare a compromettere un’intera stagione
agonistica. A nostro avviso tale difformità di giudizi
clinici, viene principalmente generata dall’eccessiva
sovrapposizione di possibili quadri clinici, peraltro di per sé
molto sovrapponibili dal punto di vista sintomatologico, che rendono
inevitabilmente difficile la formulazione di una corretta diagnosi. A
titolo d’esempio, ricordiamo come alcuni Autori (Jarvinen e coll.,
1997; Gal, 2000) individuino da 15 a 72 cause di pubalgia, che
comprendono per la maggior parte patologie muscolari e tendinee
(tendinopatie inserzionali, calcificazioni ectopiche,
avulsioni, ernie) ma anche patologie di tipo osseo ed articolare,
come fratture da stress, osteocondrosi od osteonecrosi, alle quali si
aggiungono patologie di tipo infettivo e tumorale, borsiti,
intrappolamenti nervosi, pubalgie di tipo viscerale ecc.. Ci sembra
chiaro quindi, come tutto questo, non faccia altro che sottolineare
la fondamentale importanza di una corretta diagnosi, senza la quale,
risulta di fatto impossibile poter impostare un piano di trattamento
razionale ed efficace. Il primo passo in questo senso ci sembra
l’adozione di un corretto e razionale quadro di riferimento
nosologico. Attualmente, uno dei riferimenti nosologici maggiormente
sistematico e funzionale, ci sembra quello derivante dai lavori di
Brunet (1983) e di Durey e Rondineau (1976). Secondo l’esperienza
di questi Autori, la pubalgia dello sportivo, farebbe riferimento a
tre entità anatomo-cliniche, tra loro spesso associate.
-La
patologia parieto-addominale, che interessa la parte inferiore dei
muscoli larghi dell’addome (grande obliquo, piccolo obliquo e
traverso) e gli elementi anatomici che costituiscono il canale
inguinale.
-La
patologia dei muscoli adduttori, che riguarda prevalentemente la
loggia superficiale, ossia l’adduttore lungo ed il pettineo.
-La
patologia a carico della sinfisi pubica.
Interessante
e degna di nota è anche la teoria di Bouvard e coll. (2004),
che hanno recentemente riproposto rivisitazione della classificazione
di Brunet e Durey e di Rondineau. Questi Autori, propongono di
definire con il termine di pubalgia, un’unica patologia,
caratterizzata da una sintomatologia dolorosa della zona pubica,
derivante dalla pratica sportiva che raggruppa, in modo isolato od
associato, quattro forme cliniche:
-L’osteoartropatia
pubica che interessa l’articolazione sinfisaria e le branche ossee
ad essa adiacenti. In questo caso l’analisi clinica permetterà
di differenziare le sofferenze della sinfisi di eziologia
microtraumatica dalle rare osteo-artriti pubiche infettive (Baril e
coll., 1998; Durey, 1987, Ross e Hu, 2003). In questo quadro clinico,
le alterazioni ossee possono essere talvolta molto evidenti,
presentandosi sotto forma di erosioni, oppure di veri propri “colpi
d’unghia”, a volte con presenza di frammenti. Occasionalmente le
erosioni possono presentarsi in modo così marcato e vistoso,
tanto da far comprendere, nella diagnosi differenziale, anche le
osteopatie erosive neoplastiche (Ferrario e coll., 2000)
-Le
sofferenze del canale inguinale, la cui diagnosi fu per la prima
volta formulata da Nesovic (Brunet e coll., 1984), arbitrariamente
denominate, dal momento che non esiste in questo caso una vera e
propria ernia, “sport ernia” (Durey e Rondineau, 1976, Fon e
Spencer 2000. ,Gilmore 1998). Anche se numerosi Autori riferiscono di
un’alta percentuale, che va dal 36 all’84%, di ernie non
palpabili nelle forme ribelli di pubalgia (Ekberg, 1981, Fon e
Spencer 2000, Renstrom e Peterson 1980, Smedberg e coll., 1985,
Srinivasan e Schuricht, 2002), alla definizione di “sport ernia”,
si è più recentemente sostituito il termine di “groin
disruption” (Morelli e Smith, 2001) In questo ambito ricadono tutte
le sintomatologia dolorose causate da dei difetti anatomici della
parete posteriore, nella quale la muscolatura striata è
assente (Fon e Spencer 2000). Le sofferenze della parete posteriore
del canale inguinale, possono essere evidenziate attraverso due esami
strumentali: l’erniografia (Ekberg, 1981; Ekstrand e Hilding, 1999;
Smedberg e coll., 1985) e l’ecografia (Bradley e coll., 2003,
Orchard e coll., 1998). Tuttavia esistono anche delle lesioni della
parete anteriore del canale inguinale (Irschad e coll., 2001), che
possono occasionalmente comportare delle sofferenze dei rami nervosi
del nervo ileo-inguinale ed ileo-ipogastrico (Fon e Spencer, 2000;
Irschad e coll., 2001; Morelli e Smith, 2001; Orchard e coll., 2000;
Srinivasan e Schuricht, 2002; Ziprin e coll., 1999) In questo secondo
gruppo ritroviamo inoltre le lesioni dell’aponevrosi dell’obliquo
esterno, le lesioni del tendine congiunto, del legamento inguinale e
della fascia trasversale (Christel e coll., 1997; Combelles, 1993;
Gilmore 1998; Jaeger, 1982; Lynch e Renström, 1999; Morelli e
Smith, 2001, Ziprin e coll., 1999).
-le
tendinopatie inserzionali del retto addominale (Durey e Rondineau,
1976, Ghebondini e coll., 1996, Gibbon, 1999; Martens e coll., 1987;
Volpi, 1992).
-Le
tendinopatie inserzionali e pre-inserzionali degli adduttori,
passibili di complicazione attraverso la sindrome del canale del
nervo otturatore (Bradshaw e coll., 1997; Bruckner e coll., 1999;
Srinivasan e Schuricht, 2002)
Molto
vicina a questo quadro clinico, soprattutto in termini di razionalità
nosologica, è la classificazione proposta da Benazzo e coll.
(1999), che suddivide didatticamente i possibili quadri clinici in
tre gruppi.
Gruppo 1:
costituito dalle tendinopatie inserzionali dei muscoli adduttori e/o
dei muscoli addominali, occasionalmente associate ad
un’osteoartropatia della zona pubica, di origine verosimilmente
microtraumatica. Il danno anatomico di base, sarebbe costituito da
una distrazione muscolo-tendinea inserzionale degli adduttori,
riguardante, nella maggior parte dei casi, l’adduttore lungo con un
possibile interessamento del retto addominale a livello della sua
inserzione sul tubercolo pubico. A questo quadro si può
inoltre associare un’alterazione ossea secondaria della sinfisi
pubica. Questo tipo di lesione sarebbe, secondo gli Autori, quella
maggiormente diffusa nell’ambito del calcio.
Gruppo 2:
in questo gruppo ritroviamo le lesioni, di varia rilevanza e natura,
della parete addominale, ed in particolar modo del canale inguinale,
come l’ernia inguinale vera, la debolezza strutturale della parete
posteriore del canale inguinale e le anomalie del tendine congiunto.
Gruppo 3:
questo gruppo comprende tutte le cause meno frequenti di pubalgia,
che non sono direttamente riconducibili a patologie a carico della
parete addominale. In questi quadri, che possiamo definire con il
termine di “pseudo-pubalgici”, ritroviamo: distrazioni o
lacerazioni dell’ileopsoas, del quadrato del femore,
dell’otturatore interno, sindromi da compressione nervosa
(soprattutto a carico dei nervi ilioinguinale, femorocutaneo,
femorale , perineale, genitofemorale) compressione dei rami
perforanti dei muscoli retti addominali, patologie delle radici
anteriori (sindrome della cerniera). Una condizione, ascrivibile a
questo gruppo, e relativamente frequente nel calcio, è
costituita dalla sindrome da intrappolamento del nervo otturatore, la
cui patogenesi, anche se non ancora chiaramente definita, sembrerebbe
riconducibile ad un processo di tipo infiammatorio a carico della
fascia, che potrebbe a sua volta causare una compressione della
branca anteriore del nervo otturatore a livello del suo passaggio al
di sopra del muscolo adduttore breve (Benazzo e coll., 1999). A
questo gruppo appartengono inoltre le lesioni di tipo osseo, come
l’ostetite pubica, le fratture da stress a carico delle ossa
iliache e della testa del femore, lesioni da stress o diastasi della
sinfisi pubica, osteocondriti disseccanti, osteomieliti e patologie
tumorali.
Oltre a
questi due tipi di inquadramento clinico, ritroviamo, comunque, molti
Autori che considerano ancora la pubalgia, alla stregua di un’entità
clinica “unica” che si riassume, sia in una patologia del canale
inguinale (sport ernia) (Berger, 2000; Christel e coll., 1993;
Christel e coll., 1997, Gilmore, 1998), sia ad una tendinopatia
adduttoria ( Nicholas e Tyler, 2002; Orchard e coll., 2000)
inserzionale, che ad un osteo-artropatia pubica (Chanussot e
Gholzane, 2003). Tuttavia, come già sottolineato da alcuni
studi (Christel e coll., 1997; Djian, 1997), ci sembra di rilevante
importanza, effettuare una distinzione tra le cosiddette “pubalgie
vere”, vere e proprie patologie pubiche passibili di eventuale
trattamento chirurgico, e le “false pubalgie”, che sarebbero
costituite dalle tendinopatie inserzionali e dalle osteo-artropatie
pubiche, che dovrebbero essere considerate nell’ambito della
diagnostica differenziale. Inoltre, occorre ricordare come alcuni
Autori (Fredberg e Kissmeyer-Nielsen, 1996) non concordino con la
diagnosi di patologia del canale inguinale contemplata come eziologia
isolata ma, al contrario, la considerino come associata ad un quadro
pubalgico più generale. Al di là di questo, è
importante sottolineare che le forme inguinali, concernono quasi
esclusivamente la popolazione maschile, e come quest’ultima sia
costituita per il 70% da calciatori, seguiti dai giocatori di hockey,
dai rugbisti e dai corridori di fondo (Gilmore, 1998; Vidalin e
coll., 2004). Tuttavia, altri considerano che il termine pubalgia,
debba essere utilizzato esclusivamente per quello che concerne le
lesioni parietali, e che tutte le altre forme abbiano una diversa e
ben specifica nomenclatura (Vidalin e coll., 2004). Secondo questi
Autori, tra tutte le forme non parietali, le principali sarebbero :
-le
tendinopatie del retto addominale.
-i danni
muscolari e tendinei dell’adduttore lungo, del pettineo e del
gracile (entesopatie, tendinopatie, lesioni della giunzione
muscolo-tendinea o, più raramente, del ventre muscolare).
-danni a
livello del muscolo ileopsoas.
-le
osteo-artropatie pubiche
-le
fratture da fatica del pube
-le
patologie coxo-femorali
-la
sindrome intervertebrale di Maigne,
anche se quest’ultima presenta, comunque, un’incidenza ben più
rara (Bradshaw e coll., 1997).
Anche
altri Autori, si allineano, in un certo qual modo a questa visione
clinica. Secondo Gilmore (1988), nel quadro clinico da lui definito
con il termine di “groin pain disruption, è possibile
ritrovare sia una lesione del tendine congiunto, sia una
disinserzione di quest’ultimo sul tubercolo pubico, che una lesione
dell’aponeurosi dell’obliquo esterno, oppure una deiscenza tra il
tendine congiunto ed il legamento inguinale. Oltre a ciò, nel
40% dei casi si associa una debolezza della muscolatura adduttoria.
Secondo Albers (2001), in ben il 90% dei casi di pubalgia trattata
chirurgicamente, è possibile riscontrare una protrusione
focale della fascia, altrimenti definibile con il termine di “bulge”.
In particolare è sovente rilevare un’inserzione anormalmente
alta del tendine congiunto. Per questi motivi l’Autore sottolinea
il fatto che la pubalgia sia dovuta ad un anormalità
pubalgiaco-addominale miofasciale (Pubalgic Abdominal Myofascial
Abnormality, PAMA). Abbracciando la tesi che vede il termine
pubalgia, utilizzabile solamente nel caso di patologia parietale, e
dal momento che, a livello bibliografico, si ritrova un diffuso
consenso sui fattori dominanti nel quadro pubalgico, ossia: deiscenza
dell’anello inguinale, deficienza della parete posteriore del
canale inguinale, groin pain disruption e PAMA, il termine pubalgia
potrebbe essere a tutti gli effetti sostituito con quello,
maggiormente adatto di “insufficienza parietale mio-aponevrotica
profonda” (Vitalin e coll., 2004).
Sintomi,
clinica e diagnosi.
I dolori
causati dalla pubalgia sono bilaterali nel 12% dei casi, interessano
per il 40% dei casi la regione adduttoria e solamente nel 6% dei casi
la zona perineale (Gilmore, 1998). I 2/3 dei pazienti affetti da
pubalgia riferiscono un insorgenza della sintomatologia dolorosa di
tipo progressivo, mentre solamente 1/3 denuncia un insorgenza brutale
(Gilmore, 1998). Il quadro clinico della pubalgia è
caratterizzato da una sintomatologia di tipo soggettivo ed obiettivo.
I sintomi soggettivi sono identificabili principalmente nel dolore e
nell’impotenza funzionale. La sintomatologia dolorosa presenta
delle intensità molto variabili, che possono andare dal
semplice fastidio, la cui insorgenza è determinata dalle
sollecitazioni delle zone anatomiche interessate, sino al dolore
acuto di intensità tale da compromettere anche la normale vita
di relazione del paziente, in attività quotidiane come la
deambulazione, il vestirsi, la salita e la discesa delle scale,
arrivando talvolta anche ad impedire il sonno. L’insorgenza
dolorosa può comparire in seguito a gara e/o allenamento,
essere già presente prima della prestazione e scomparire
durante la fase di riscaldamento, per poi ricomparire nel prosieguo
dell’attività. Nei casi estremi la sintomatologia algica
impedisce di fatto la prestazione stessa. Il dolore può
irradiarsi, estendendosi lungo la muscolatura adduttoria e/o
addominale, in direzione del perineo e degli organi genitali,
generando, in tal modo, dei possibili errori diagnostici. L’impotenza
funzionale è ovviamente direttamente correlata con l’intensità
della sintomatologia dolorosa. Dal punto di vista oggettivo, il
paziente lamenta dolore alla palpazione ed allo stiramento contro
resistenza, inoltre, in quest’ambito, riveste una grande importanza
l’osservazione di come il paziente si muova , cammini e si spogli.
Un altro fattore d’importante aiuto nella visita clinica, è
la ricerca di un eventuale segno di Malgaigne, ossia, della presenza
di una curvatura oblunga posta tra l’arcata crurale ed il bordo
inferiore dei muscoli obliqui (Fournier e
Richon, 1992). Per ciò che riguarda la diagnostica per
immagini, è sempre consigliabile effettuare un esame
radiografico del bacino che evidenzi la situazione della sinfisi
pubica, in modo tale da poter verificare la presenza di eventuali
erosioni, dismetrie della branche pubiche, presenza di artrosi
(frequente anche in soggetti giovani), o patologie delle
articolazioni coxo-femorali. A questo proposito è importante
sottolineare come attraverso un esame RX dinamico, effettuato in
appoggio monopodalico alternato, si possa formulare la diagnosi
d’instabilità sinfisaria, nel momento in cui si riscontri,
tra le branche orizzontali del pube, uno sfalsamento verticale
maggiore di 3 mm (Christel e coll., 1993 ;
Death e coll., 1982; Ghebontini e coll., 1996). L’ecografia
trova una sua indicazione nel caso di sospetta ernia inguinale o
crurale e può, eventualmente, essere completata da una
peritoneografia. La scintigrafia ossea costituisce un esame di scarsa
specificità, in effetti ogni tipo di lesione ossea sinfisaria,
sia di tipo traumatico, che tumorale od infettivo, indurrebbe un
ipercaptazione a livello della sinfisi stessa. Tuttavia,
un’ipercaptazione che si normalizzi dopo un trattamento
conservativo, costituisce un importante elemento che può
deporre a favore di un’eventuale ripresa dell’attività
sportiva (Lejeune e coll., 1984 ; Zeitoun
e coll., 1995). L’esame d’elezione si dimostra comunque la
RM (Ghebontini e coll., 1996; Berger, 2000), che può dare
informazioni dettagliate sia sulla situazione ossea, che sulle
strutture inserzionali. Anche l’ecografia, soprattutto se
effettuata in dinamica, è in grado di evidenziare zone di
edema flogistico, ematomi (in caso di lacerazioni muscolo-tendinee),
zone di degenerazione mixoide, di metaplasma condrale o calcificodi
fibrosi. L’esame clinico si basa su alcuni test muscolari di
semplice esecuzione basati sulla contrazione e sulla distensione
passiva. Di seguito presentiamo alcune manovre, su cui basare l’esame
clinico stesso.
Figura 1:
Test per il muscolo ileopsoas. A paziente disteso in posizione
supina, lo si invita a flettere la coscia sul bacino ruotando
contemporaneamente la gamba esternamente. Lo stesso tipo di test può
essere effettuato in modalità eccentrica chiedendo al
paziente, posto supino con la coscia flessa sul bacino, di resistere
alla trazione dell’operatore, tendente ad estendere la coscia sul
bacino ruotando, nello stesso tempo, internamente la gamba stessa,
che era stata preventivamente extra-ruotata.
Figura 2:
test per il muscolo retto dell’addome. Il paziente
assume la posizione rappresentata in figura , lo si invita quindi a
sollevare il busto sino a portare i gomiti a contatto con le anche.
In tal modo viene valutato specificatamente il retto addominale,
essendo escluso biomeccanicamente l’intervento del muscolo
ileopsoas.
Figura 3:
Test per i muscoli retti ed obliqui dell’addome. Partendo
dalla posizione riportata in figura , s’invita il paziente ad
aprire lateralmente un braccio ruotando il capo in direzione di
quest’ultimo, quindi gli si domanda di portare il gomito rimasto
addotto al corpo verso l’anca corrispondente. Il test, che va
effettuato bilateralmente, si dimostra particolarmente adatto alla
valutazione dei muscoli grandi obliqui.
Figura 4:
test per i muscoli adduttori (1). Posizionando una
resistenza a livello delle ginocchia, si chiede all’atleta di
effettuare la massima forza in adduzione degli arti inferiori, quindi
si procede ad una seconda prova, ponendo la resistenza distalmente a
livello delle caviglie. La contrazione contro resistenza distale
aumenta la sintomatologia dolorosa. Occorre comunque ricordare che la
contrazione isometrica degli adduttori può causare, nelle
forme canalari inguinali, un dolore di proiezione sovra-pubico
(Durey, 1984).
Figura 5:
test per i muscoli adduttori (2). L’atleta è in posizione
supina con le ginocchia flesse a 90°. Ponendo la resistenza tra
le ginocchia, si chiede al paziente di effettuare un adduzione delle
stesse. Generalmente questo tipo di manovra risulta dolorosa quando
nell’entesopatia è coinvolto il muscolo gracile.
Figura 6:
test per i muscoli adduttori (3). Mantenendo le
ginocchia flesse a 90°, l’operatore divarica gli arti inferiori
del paziente chiedendo a quest’ultimo di opporre resistenza al
movimento d’apertura. Anche questo tipo di manovra, come la
precedente, suscita dolore in caso di coinvolgimento dei muscoli
gracile e semitendinoso.
Figura 7:
test per il muscolo otturatore esterno. Il paziente è disteso
in posizione supina, lo si invita a ruotare esternamente, contro
resistenza, la coscia abducendola.
I
fattori predisponesti
Esisterebbero
dei fattori intrinseci ed estrinseci, che potrebbero predisporre
l’atleta all’insorgenza della pubalgia. Tra i fattori intrinseci,
quelli che raccolgono il maggior consenso tra i vari Autori, (Durey,
1987; Bouvard e coll., 2004) sarebbero:
-Una
patologia a carico dell’anca o dell’articolazione sacro-iliaca
-Una
franca asimmetria degli arti inferiori
-L’iperlordosi
- Uno
squilibrio funzionale tra muscoli addominali e muscolatura
adduttoria: la muscolatura addominale si rivelerebbe debole se
rapportata alla muscolatura adduttoria che, al contrario, si
presenterebbe forte ed eccessivamente rigida.
-Una
muscolatura ischio-crurale poco elongabile.
Le
coxopatie, ovviamente, sia che risultino essere malformative, oppure
di tipo degenerativo, costituiscono un fattore peggiorativo
supplementare (Durey, 1984; Joliat 1986; Morelli e coll., 2001;
Rochcongar e Durey, 1987)
Tra i
fattori estrinseci ritroviamo invece (Brunet, 1983; Brunet e coll.,
1984; Volpi, 1992):
-Inadeguatezza
dei materiali utilizzati: un esempio tipico nell’ambito del calcio
è costituito dall’utilizzo di tacchetti troppo lunghi su
terreni secchi, oppure troppo corti in caso di terreni morbidi (Puig
e coll., 2004)
-Inidoneità
del terreno di gioco
-Errori
nella pianificazione dell’allenamento
Nello
sportivo quindi la pubalgia sarebbe indotta dalla combinazione di
eccessive trazioni muscolari da parte della muscolatura addominale ed
adduttoria, da stress a livello osseo causati da torsioni ed impatti
che si verificherebbero durante la corsa, da movimenti violenti
effettuati con scarso controllo muscolare (come ad esempio tiri,
tacles, cambiamenti di direzione ecc.) e da costrizioni meccaniche,
soprattutto di tipo torsionale, della sinfisi pubica (Gibbon, 1999;
Orchard e coll., 1998; Wodecki e coll., 1998). La maggioranza degli
Autori concorda con il fatto che, in condizioni di normalità
funzionale, i muscoli dell’addome e la muscolatura adduttoria,
hanno una funzione antagonista ma biomeccanicamente equilibrata.
Nelle pubalgie esisterebbe un disequilibrio tra adduttori troppo
potenti e muscoli larghi dell’addome di tonicità
insufficiente. Di fatto, questo disequilibrio funzionale si
ripercuoterebbe negativamente a livello pubico (Anderson e coll.,
1989; Brunet, 1983; Brunet e coll., 1984; Christel e coll., 1993;
Christel e coll., 1997; Kremer Demuth, 1998). Per alcuni Autori
(Kremer Demuth, 1998), l’ipertonia del muscolo quadricipite
femorale parteciperebbe a questo disequilibrio funzionale,
aggravandolo.
A titolo
esemplificativo, possiamo utilizzare l’esempio della barca a vela.
Come è possibile osservare in figura 8, il muscolo
retto addominale è paragonabile all’albero di
un’imbarcazione, la vela rappresenterebbe i muscoli obliqui, mentre
lo scafo e la chiglia costituirebbero rispettivamente il pube ed i
muscoli adduttori della coscia. Se i muscoli obliqui sono troppo
deboli, accade quello che si verificherebbe nel caso in cui la vela
non fosse ben fissata e brandeggiasse sotto un forte vento: in questo
caso le forze eccessive, trasmesse all’albero causerebbero una suo
cedimento. Quindi, nel caso specifico della pubalgia, le forti
tensioni a livello della muscolatura addominale, causerebbero dei
danni a livello pubico, in corrispondenza delle inserzioni del retto
addominale e della muscolatura adduttoria. In questo caso, il
rinforzo dei muscoli obliqui, che nel nostro esempio equivarrebbe
alla fissazione della vela allo scafo(figura 9), ridurrebbe
drasticamente le forze tensive a livello pubico. Occorre comunque
ricordare come altri Autori identifichino, come ulteriore fattore di
rischio pubalgico, un rapporto minore all’80% tra forza tensiva dei
muscoli adduttori e quella dei muscoli abduttori (Nicholas e Tyler,
2002) ed altri ancora, un rapporto deficitario tra forza dei muscoli
estensori del busto e muscoli flessori, anche in questo caso il
valore normativo di riferimento sarebbe pari a 0.8 (Gal, 2000).
Infine altri studi (Bouvard e coll., 2004), includono tra i fattori
predisponenti uno scarso equilibrio monopodalico, tuttavia, la nostra
esperienza terapeutica non ci permette di condividere quest’aspetto,
essendo peraltro la gestione dell’equilibrio , sia statico, che
dinamico, riconducibile ad una modalità di controllo
estremamente multifattoriale, che rende difficile ogni tipo di
inferenza, ed ancor più in questo campo specifico.
Figura
8: l’albero dell’imbarcazione rappresenta il muscolo retto
addominale, la vela i muscoli obliqui, la chiglia i muscoli
adduttori, infine, lo scafo della nave rappresenta il pube.
Figura
9: il rinforzo dei muscoli obliqui, rappresentato nel disegno dalla
fissazione della vela allo scafo, permette di eliminare le forze
perturbanti a livello del pube.
A livello
anatomico, è importante ricordare che ben sei, dei sette
muscoli adduttori, sono innervati dal nervo otturatore,
e come la loro origine si situi nelle immediate vicinanze del pube,
permettendogli biomeccanicamente di agire come degli adduttori
dell’anca in catena cinetica aperta, ma di ricoprire anche un
importante ruolo di stabilizzatori in catena cinetica chiusa. Non a
caso, gli sportivi affetti da pubalgia, mostrano un forte potenziale
muscolare concentrico della muscolatura dell’arto inferiore in
toto, ma contestualmente dimostrano un deficit di forza resistente
dei muscoli posturali (Bouvard e coll., 2004; Nicholas e Tyler,
2002).
Il
trattamento conservativo
Allo
stato attuale delle conoscenze, i dati ritrovabili in letteratura non
permettono di trovare un unanime consenso per ciò che riguarda
la durata di un possibile trattamento di tipo conservativo della
sindrome pubalgica nello sportivo. La durata di quest’ultimo, va
infatti da 2 a 3 settimane secondo alcuni Autori (Gilmore, 1988),
sino a 6 mesi secondo altri (Holt e coll.,
1995). In linea di massima comunque la maggior parte degli Autori
concorda su di un trattamento conservativo la cui durata è di
circa 3 mesi (Brunet e coll., 1984; Fournier e Richon, 1992; Zeitoun
e coll., 1995). In ogni caso il trattamento conservativo della
pubalgia deve necessariamente conformarsi ai seguenti criteri:
-La
tipologia anatomo-clinica
-L’età
e la motivazione del paziente
-Il
livello sportivo dell’atleta
-L’intensità
e la tipologia della sintomatologia dolorosa
Normalmente,
alla terapia conservativa, viene associato un periodo di riposo
completo sufficientemente prolungato, al fine di ottenere un
consolidamento degli elementi tendineo-muscolo-aponevrotici
interessati dalla lesione. Oltre a questo, è generalmente
prevista una terapia antalgica a base di FANS (Brunet e coll., 1984;
Fournier e Richon, 1992; Zeitoun e coll., 1995) e/o di steroidi per
os (Batt e coll., 1995), nei casi particolarmente acuti e ribelli può
essere indicata una terapia infiltrativa (Holt e coll., 1995). Molte
volte nella terapia infiltrativa vengono utilizzati anche farmaci ad
azione anestetica (normalmente xilocaina al 2%), allo scopo di poter
rendere disponibile l’atleta all’attività agonistica. E’
chiaro che questo tipo d’intervento, presuppone delle componenti di
rischio non indifferenti per l’integrità fisica dell’atleta,
che non ricevendo più stimoli nocicettivi, può superare
i limiti funzionali imposti dalla patologia, con tutti in rischi che
a questo conseguono. Nelle forme cronicizzate è anche in uso
utilizzare una tecnica di ricostruzione del tessuto tendineo, che
consiste nell’iniettare in loco sostanze solubili, appartenenti ad
altre specie animali, ottenendo in tal modo, per rigetto biologico,
la formazione di nuovo tessuto fibroso. Tale tessuto di
neo-formazione viene poi plasmato con programmi di lavoro basati su
contrazione eccentrica, stretching assistito e posture, in modo tale
da ottenere un corretto orientamento delle fibre neo-formate lungo le
linee direzionali di forza del tendine. In tal modo si otterrebbe lo
sviluppo di un neo-tendine che può sostituire, o comunque
rinforzare, la struttura tendinea deteriorata (Ferrario e coll.,
2000) A queste prime fasi, segue un secondo periodo basato sul
trattamento fisiokinesiterapico (Fournier e Richon, 1992). Secondo i
dati desumibili in letteratura, il trattamento conservativo permette
di raggiungere la guarigione completa in circa l’80% dei casi’,
ed è comunque raccomandato, come prima scelta terapeutica,
dalla maggioranza degli autori (Bouvard e coll., 2004; Irschad e
coll., 2001; Morelli e Smith, 2001; Orchard e coll., 2000; Baquie,
2000; Fon e Spencer, 2000; Linch e Renström, 1999; Gilmore,
1998; Kremer e Demuth, 1998; Wodecki e coll., 1998; Christel e coll.,
1997; Djian, 1997; Arezki e coll., 1991; Durey, 1984; Brunet, 1983;
Durey e Rondineau, 1976). Solamente nel caso del fallimento di un
trattamento conservativo, condotto secondo appropriate tecniche
terapeutiche, e protratto per un tempo sufficientemente lungo,
occorre giocoforza considerare la soluzione chirurgica (Christel e
coll., 1993). In base alla nostra esperienza terapeutica, un
trattamento conservativo deve rispettare i seguenti punti:
-rinforzo
della muscolatura addominale in toto ed in particolar modo dei
muscoli obliqui e del terzo inferiore del retto addominale.
-allungamento
e detensione della muscolatura adduttoria
-condizionamento
muscolare della muscolatura adduttoria contestuale al progressivo
rinforzo della muscolatura addominale.
-condizionamento
e rinforzo sinergico della muscolatura addominale, adduttoria e
lombare
Inoltre,
occorre sottolineare che, anche in caso di sintomatologia
unilaterale, è sempre buona norma, soprattutto a scopo
preventivo, effettuare tutti gli esercizi contemplati nel piano di
lavoro, in forma bilaterale (Renström e Peterson, 1980).
Analizzeremo
ora i quattro punti sopra citati, fornendo anche, seppur in linea
generale, i principi ed i mezzi terapeutici ai quali attenersi in
ognuna delle quattro tappe considerate.
Rinforzo
della muscolatura addominale.
La
tonificazione della parete addominale deve essere effettuata
gerarchizzando opportunamente i tipi di contrazione proposti al
paziente. Durante il primo periodo di trattamento gli esercizi
addominali debbono essere eseguiti in modalità isometrica,
nella parte centrale del programma conservativo si potrà
passare alla contrazione concentrica, e solamente nell’ultima fase
del trattamento potrà essere proposta la contrazione
eccentrica. Gli esercizi fondamentali sui quali basare il programma
di rinforzo della parete addominale sono essenzialmente costituiti
dal Crunch e dal V Up, con le loro relative varianti.
Esercizio
1: il crunch e le sue varianti rappresentano gli esercizi
migliori per sollecitare il retto addominale. Occorre assumere una
posizione piuttosto “chiusa” mettendo le mani sulle tempie ed
effettuare un movimento molto breve portando i gomiti verso le anche.
Il movimento dovrà essere molto “corto”, la colonna deve
rimanere in una posizione di cifosi accentuata e soprattutto non
dovrà mai toccare a terra. Il numero delle serie da effettuare
è compreso tra 3 e 5 e in ogni serie occorre cercare di
effettuare il massimo numero di ripetizioni possibili,
indipendentemente dal loro numero, le ultime due o tre ripetizioni
dovrebbero effettivamente provocare una sensazione di forte bruciore.
Siccome gli addominali sono prevalentemente composti da fibre a
contrazione lenta (Polgar e coll., 1973; Caix e coll., 1984;),
occorre farli lavorare rispettando i principi di base
dell’allenamento della forza resistente; per questo motivo la pausa
tra le serie deve essere molto breve: si potrà iniziare con
una pausa di circa 30’’ e, con il miglioramento del tono della
parete addominale , portarla progressivamente a 10’’.
Esercizio
2: Il V Up e le sue varianti. Anche se non è corretto
suddividere gli esercizi per la muscolatura addominale in
esercitazioni per i cosiddetti, quanto inesistenti da un punto di
vista anatomico, “addominali bassi” ed “addominali alti”,
possiamo comunque ragionevolmente affermare, soprattutto in virtù
della diversa innervazione tra la parte superiore e la parte
inferiore della muscolatura addominale, che esercizi come il V Up,
sollecitano maggiormente la parte bassa del retto addominale, mentre
esercizi come il crunch, interessino maggiormente la porzione alta di
quest’ultimo (Sarti e coll., 1996; Tyson, 1997a; Tyson, 1997b;
Iscoe, 1998). Per eseguire l’esercizio di V Up occorre assumere la
posizione supina, con le braccia lungo i fianchi in modo tale da
stabilizzare la posizione stessa. Contraendo gli addominali si devono
sollevare da terra bacino e glutei, portando i piedi verso l’alto.
Si deve escludere ogni movimento di spinta delle gambe concentrandosi
sulla sola contrazione della muscolatura addominale. I criteri da
adottare per quanto riguarda il numero delle serie, delle ripetizioni
e l’entità della pausa di recupero, sono gli stessi adottati
per l’esercizio precedente.
Esercizio
3 : un efficace variante del crunch è costituita dal
crunch obliquo. Questo esercizio permette, se ben eseguito, un forte
coinvolgimento del muscolo grande obliquo. Come nel crunch, bisogna
assumere una posizione piuttosto “chiusa” mettendo le mani sulle
tempie ed aprendo un gomito verso l’esterno. Per ottenere il
massimo impegno del muscolo grande obliquo, è necessario
ruotare la testa in modo tale da avere lo sguardo rivolto verso il
gomito esterno, effettuando un movimento molto breve, portando il
gomito interno verso l’anca.
Esercizio
4: nel crunch eseguito in modalità eccentrica, il paziente
dovrà resistere alla spinta che l’operatore applicherà
sul suo busto in direzione del suolo. Il movimento dovrà
essere lento, controllato, ed accompagnato da una profonda
espirazione.
Allungamento
e detensione della muscolatura adduttoria.
L’allungamento
e la detensione della muscolatura adduttoria, deve essere impostato,
oltre che sugli esercizi classici di stretching e sulle posture
globali, anche e soprattutto applicando i principi dello Stretch &
Spray enunciati e descritti da Travell e Simmons (1988). Il
raffreddamento muscolare diretto, che si esegue in questa particolare
tecnica fisokinesiterapica, determina infatti un fenomeno di
miorilassamento, verosimilmente dovuto ad un inibizione dei fusi
neuromuscolari, la cui attività cala di circa il 50% per ogni
10° C di riduzione termica. Questo fenomeno permette
un’elongazione del complesso muscolo-tendineo, altrimenti
impossibile attraverso le tradizionali tecniche di stretching.
Il
condizionamento muscolare della muscolatura adduttoria
Dopo
una prima fase di rinforzo essenzialmente a carico della muscolatura
addominale, deve seguire un contestuale condizionamento della
muscolatura adduttoria, soprattutto nei casi in cui la situazione
tendineo-inserzionale di quest’ultima sia carente dal punto di
vista strutturale. Le linee guida del condizionamento dei muscoli
adduttori seguono la stessa gerarchizzazione, in termini di tipo di
contrazione proposta, utilizzata per la muscolatura addominale:
contrazione isometrica seguita da contrazione concentrica ed infine
da contrazione eccentrica.
La
contrazione di tipo isometrico prevede due tipi di angolazione: a
gambe tese ( a carico prevalentemente dell’adduttore lungo) ed a
gambe flesse (gracile e semitendinoso). Riportiamo di seguito alcuni
esempi esercitativi.
Esercizio
5: Mantenimento della posizione isometrica, stringendo una palla,
con ginocchia flesse a 90°, per un tempo compreso tra i 30 ed i
90’’, in funzione del livello del programma riabilitativo
proposto.
Esercizio
6: mantenimento della posizione isometrica a ginocchia tese, con
resistenza a livello prossimale (riquadro a), oppure distale(riquadro
b)
La
contrazione di tipo isotonico, preferibilmente effettuata con
resistenza manuale offerta dall’operatore o con resistenza elastica
deve prevedere l’utilizzo delle tre posizioni sotto-riportate.
Esercizio
7: una volta ottenuta la stabilizzazione del bacino da parte del
paziente, grazie d un movimento di retroversione, le tre posizioni
base di lavoro della muscolatura adduttoria sono a gambe estese sul
piano frontale (riquadro a), a gambe flesse (riquadro b) , a gambe
tese con movimento di adduzione a 45° (riquadro c).
Anche per
quello che riguardala contrazione di tipo eccentrico è
consigliabile l’utilizzo delle tre posizioni di lavoro sopra
menzionate lavorando contro resistenza manuale offerta
dall’operatore.
La
core stability
L’ultima
tappa del piano di lavoro conservativo, consiste nel allenamento
contestuale e sinergico della muscolatura addominale, adduttoria e
lombare, al fine di creare un armonico ed equilibrato sinergismo
muscolare di questi tre gruppi muscolari. A questo scopo ci sembra
particolarmente adatta la “core stability”, intendendo con questo
termine tutta una serie di esercitazioni specifiche che si eseguono
grazie all’utilizzo della Swiss ball. Gli esercizi di core
stability coinvolgono la muscolatura addominale in toto (retto,
traverso, obliqui e piramidale) associando a ciò una
richiesta di stabilità segmentale, soprattutto a carico del
tratto lombare, che coinvolge attivamente la muscolatura della loggia
lombare (quadrato dei lombi) i muscoli paravertebrali, il multifido e
l’erettore della colonna (Behm e coll, 2002; Hodges e Richardson,
1996; McGill, 2001). Il dato importante da sottolineare è che
grazie agli esercizi di base facenti parte del programma di core
stability si è in grado di ottenere un livello di attivazione
maggiore dei muscoli coinvolti nel movimento, rispetto allo stesso
tipo di esercizio effettuato su di una superficie stabile (Marshall e
Murphy, 2005). Di seguito proponiamo alcuni esempi esercitativi
desunti dal programma di core stability da noi utilizzato.
Esercizio
8: il movimento di “Jack knife” effettuato sulla Swiss
ball, prevede l’estensione completa delle gambe, partendo da una
posizione di accosciata completa, per questo motivo ricorda
l’apertura di un coltello a serramanico, da cui deriva il suo nome.
Esercizio 9: l’estensione della gamba in appoggio sulla Swiss ball permette un
completo coinvolgimento di tutta muscolatura stabilizzatrice del
bacino.
Esercizio
10: sulla Swiss ball è possibile effettuare
l’esercizio di crunch (riquadro a) e tutte le sue varianti
(riquadro b).
Il
trattamento chirurgico
Di norma,
l’indicazione chirurgica, dovrebbe essere riservata ai pazienti che
non abbiano fatto registrare nessun tipo di miglioramento clinico
evidente, dopo essere stati sottoposti ad un adeguato trattamento
conservativo della durata di almeno tre mesi e che presentino
un’eziologia parieto-addominale (Durey, 1984;
Gilmore, 1988; Fournier e Richon, 1992; Christel e coll., 1993; Moyen
e coll., 1993; Christel e coll., 1996). In linea generale la pubalgia
può essere corretta chirurgicamente sia attraverso una
detensione dei muscoli adduttori, che attraverso un ritensionamento
dei muscoli larghi dell’addome (Christel e coll., 1993; 1996). La
detensione della muscolatura adduttoria può essere realizzata
sia grazie ad una tenotomia per cutanea, essenzialmente a carico
dell’adduttore lungo (Vidalin e coll., 2004), che attraverso un
accesso chirurgico diretto, con asportazione delle lesioni
fibrocicatriziali a livello inserzionale. Quest’ultima tecnica
chirurgica, è comunque ritenuta, in linea generale, come
troppo distruttiva, soprattutto nel caso di sportivi di alto profilo
prestativo (Christel e coll., 1993; 1996) ed è, di norma,
riservata alle forme di pubalgie secondarie ad una tendinopatie
“pura” degli adduttori, senza segni clinici che permettano di
avanzare l’ipotesi di una insufficienza della parete addominale
(Moyen e coll., 1993). La tecnica a tutt’oggi maggiormente
utilizzata è quella di Nesovic (Fournier e Richon, 1992),
consistente in un riequilibrio, effettuato tramite plastica
addominale, delle forze muscolari che entrano in gioco a livello
sinfisario (Moyen e coll., 1993). Questo tipo di tecnica chirurgica,
presente notevoli similitudini con l’intervento di Bassini
utilizzato nella cura dell’ernia inguinale (Fournier e Richon,
1992). Riprendendo la già citata analogia con la barca a vela,
il fatto di fissare la vela sulla plancia della barca, ossia
sull’arcata crurale, ridistribuisce, di fatto, in maniera ottimale
i vettori di forza, scaricando di conseguenza la base dell’albero,
che rappresenta le inserzioni del retto addominale e dei muscoli
adduttori. L’intervento di Nesovic presenta un tempo di dissezione
ed uno di riparazione. L’incisione ha inizio a livello della spina
del pube in direzione della spina iliaca antero-superiore. In seguito
viene scollata l’aponeurosi del grande obliquo, che viene inciso
dall’orifizio superficiale del canale inguinale sino alla spina
iliaca. A questo livello si constata spesso una deiscenza tra il
bordo inferiore del tendine congiunto e l’arcata crurale. Il tempo di riparazione avviene sia sul piano
profondo, che su quello superficiale. Il tempo di riparazione sul
piano profondo, definito da Nesovic come tempo di miofascioplastica,
consistente nel portare a contatto la parete addominale con l’arcata
crurale grazie ad una sutura tra l’estremità inferiore del
retto addominale e del tendine congiunto al periostio pubico. A
questo consegue un tempo di riparazione superficiale rappresentato
dalla sutura dell’aponeurosi superficiale (Fournier e Richon, 1992;
Jaeger, 1984).
Conclusioni
La
pubalgia resta comunque un interessante e controverso oggetto di
discussione per ciò che concerne il suo iter terapeutico, sia
nel caso in cui questo sia di tipo conservativo,oppure chirurgico. In
ogni modo, ci sembra fondamentale sottolineare l’enorme importanza
che riveste in questo campo una corretta e precoce diagnosi. Infatti,
solamente dopo aver diagnosticato con precisione, l’eziologia del
dolore pubalgico, si è in grado di indirizzare il paziente
verso il tipo di trattamento maggiormente consono al suo caso. Per
questo motivo, l’esame clinico deve, nella maggioranza dei casi,
essere supportato da adeguati esami strumentali, che possano aiutare
lo specialista nella formulazione della diagnosi. Anche il
trattamento conservativo, nei casi in cui quest’ultimo sia
indicato, deve seguire dei criteri d’intervento ben precisi,
dettati dai progressi funzionali del paziente e nel pieno rispetto
della sintomatologia dolorosa da questi riportata.
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