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Argomento: |
Fisiologia
e biomeccanica |
Data: |
2002 |
Testata: |
SdS.
Anno XXI, 54: 28-41, 2002 |
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La
fatica: aspetti centrali e periferici
di
Bisciotti GN. (1,2,3) ., Iodice PP
(1), Massarelli R (1)
- Dipartimento
"Entraînement et performance" , Facoltà
di Scienze dello Sport, Università
Claude Bernard, Lione (F).
- Scuola Universitaria
Interfacoltà di Scienze Motorie, Torino
(I)
- Consulente
Scientifico Internazionale FC
Abstract:
Il
fenomeno della fatica ha uneziologia multifattoriale,
non sempre facilmente identificabile e la cui
interpretazione spesso comporta numerosi dubbi
e non poche contraddizioni concettuali. Classicamente
si tende a suddividere il fenomeno in fatica
periferica e fatica centrale attribuendo alla
prima cause prevalentemente metaboliche ed alla
seconda invece motivazioni essenzialmente di
tipo neurale. Tuttavia il quadro generale non
è sempre così perfettamente distinguibile
ed i vari fattori scatenati si sovrappongono
molto spesso in maniera indistinguibile, rendendo
la situazione di difficile lettura interpretativa.
In questa breve review si cerca di fare un punto
sullo stato attuale di conoscenza della problematica
inerente linsorgenza della fatica, sia
periferica, che centrale, sottolineando i molti
punti di dubbio ed i possibili futuri campi
dindagine.
INTRODUZIONE
Nel
corso degli ultimi trentanni il concetto
di fatica si è piuttosto modificato ed
in un certo senso "evoluto". Prima
degli anni 70 infatti, fisiologicamente
la nozione di fatica era essenzialmente un sinonimo
dellesaurimento delle scorte energetiche,
prevalentemente dellATP e dell accumulo
di sostanze inibitrici nei confronti dei meccanismi
di ripristino energetico (Westerblad e coll.,
1991). Solamente a partire dagli anni 80
si è cominciato ad interpretare il fenomeno
come multifattoriale e reversibile, considerando
anche, sia la sua diversa velocità, che
i suoi differenti termini dinsorgenza.
Più tardi, a cominciare dagli anni 90,
si è potuto assistere ad un crescente
consolidamento dei concetti di plasticità
muscolare, dei meccanismi di ottimizzazione
della produzione di forza da parte del muscolo
e della sua ricerca di "attivazione economica",
nonché più recentemente allapparizione
del concetto di formazione di complessi sub-cellulari
tra i sistemi biologici e gli elementi ultrastrutturali
legato al concetto di formazione di micro-ambienti
(Korge e Campbell, 1995).
Autori
come Korge e Campbell, mettono in discussione
il fatto che uno dei fattori scatenanti il fenomeno
della fatica possa essere costituito dalla mancanza
di ATP, dal momento che la deplezione di ATP
viene efficacemente controbilanciata dalla sua
rigenerazione attraverso un fenomeno di down-regulation
anche nel muscolo affaticato. Potenzialmente
questo fenomeno di down-regulation potrebbe
essere svolto da alcuni prodotti della reazione
ATPasica come dallaccumulo di Pi od H+.
I due Autori sottolineano come esistano evidenze
sperimentali che dimostrino che il legame della
creatin-kinasi e degli enzimi glicolitici nella
vicinanza dei siti didrolisi dellATP
ed il loro accoppiamento funzionale con i meccanismi
di rigenerazione dellATP, potrebbe creare
un "micro-ambiente" che abbia un importante
ruolo nella regolazione della funzione ATPasica.
Unimportante funzione in questo fenomeno
di rigenerazione dellATP può essere
assunto dal valore ottimale di ratio locale
ADP/ATP, che sembrerebbe particolarmente importante
nel caso di un alto turnover dellATPasi.
Sfortunatamente nel muscolo in vivo non
è dato conoscere il massimo rateo locale
di rigenerazione dellATP, in funzione
della sua idrolisi, questa mancanza di conoscenza
di dati precisi è principalmente dovuta
al fatto che, nella determinazione in vitro
questo valore viene di fatto sistematicamente
sottostimato. Ed è proprio negli anni
90 (Atlan e coll., 1991) che appare per
la prima volta il temine anglosassone wisdom
(che tradotto letteralmente significa saggezza)
che descrive il sistema di protezione di tipo
progressivo messo in atto dal muscolo contro
il fenomeno della necrosi.
I
due principali processi implicati nellinsorgenza
del fenomeno della fatica, che sono costituiti
dalla trasmissione del segnale nervoso e dalla
catena energetica metabolica, sono fortemente
interagenti e si sovrappongono costantemente,
costituendo in tal modo, sia singolarmente,
che sinergeticamente, la causa scatenante della
fenomenologia. La bibliografia inerente la problematica
fisiologica della fatica è vastissima
(si possono trovare oltre 3.800 articoli scientifici
sullargomento) e costellata di numerose
divergenze interpretative riconducibili essenzialmente
a problemi di standardizzazione e riproducibilità
tra i vari protocolli dindagine. Soprattutto
la trasposizione di dati ottenuti in vitro,
rispetto alla situazione in vivo, è
alquanto deludente. Occorre anche notare che,
sia i criteri di ordine biomeccanico, che quelli
di tipo prettamente biologico, inerenti il fenomeno
della fatica, sono sovente mal definiti, dal
momento che occorre ricordare che la fatica,
e conseguentemente la sua modalità dinsorgenza,
è "compito-specifica", ossia
presenta una forte specificità nei confronti
dellattività che la ha indotta
(Allen e coll., 1995; Fitts e Metzger, 1993;
Fitts, 1996; Green, 1997; Mc Lester, 1997; Sejerstede
e coll., 1998; Westerblad e coll., 1991).
Daltro canto anche la classica forma iperbolica
che descrive il rapporto tra tempo limite e
la percentuale di forza massimale utilizzata
nel corso dellesercizio, ci sottolinea
laspetto fortemente multifattoriale del
fenomeno (Rohmer, 1968).
In
questo lavoro prenderemo in esame i principali
fattori che determinano linsorgenza della
fatica periferica e della fatica centrale per
poterci meglio rendere conto della complessità
del problema e del suo aspetto "multiparametrico",
che rende impossibile poter imputare ad un solo
fattore linsorgenza del fenomeno.
LA FATICA PERIFERICA
Come
già accennato il fenomeno della fatica
è stato indagato tramite lutilizzo
di svariati protocolli di studio, il più
delle volte difficilmente riproducibili e standardizzabili
ed in ultima analisi scarsamente confrontabili.
Le metodiche maggiormente utilizzate sono costituite
da sperimentazioni su muscolo isolato oppure
in vivo, sia sullanimale, che sulluomo.
Un grosso apporto metodologico è stato
costituito, verso la fine degli anni 70,
dallavvento della Risonanza Magnetica
Nucleare (RMN) grazie alla quale si è
reso possibile lo studio non invasivo ed in
tempo reale dei meccanismi energetici cellulari,
come ad esempio la concentrazione muscolare
di protoni. Grazie allavvento di questa
nuova tecnica si è potuto dare vita a
tutta una serie di modelli che hanno tentato
e tentano di descrivere, con la maggior precisione
possibile, tutte le tappe che portano alla produzione
di forza allinterno del muscolo in attività.
Tuttavia, indipendentemente dalle tecniche di
indagine utilizzate, il concetto di fatica varia
in funzione dei diversi Autori. Alcuni infatti
adottano come criterio valutativo delle variabili
di tipo biomeccanico, come la tensione muscolare,
altri invece preferiscono adottare dei parametri
di ordine biologico come la concentrazione di
alcuni composti, oppure lattività
di alcuni enzimi o di alcuni complessi molecolari.
Da un punto di vista prettamente metodologico,
i tre tipi di metodo di lavoro maggiormente
utilizzati nei protocolli dindagine della
fatica muscolare sono costituiti dalla contrazione
isometrica di tipo continuo, dalla contrazione
isometrica di tipo discontinuo e dalla contrazione
isotonica discontinua. Questa ultima modalità
di lavoro può essere svolta eccentricamente,
concentricamente, attraverso la modalità
isocinetica oppure grazie ad una combinazione
di queste differenti possibilità. La
durata, la progressività e lintensità
delle esercitazioni proposte nei vari tipi di
protocollo utilizzati sono le più svariate
e costituiscono un ulteriore problema interpretativo.
I MECCANISMI ED I SITI IMPLICATI NELLISORGENZA
DELLA FATICA IL RUOLO DELLE POMPE Na+/K+
ATPase E Ca++ ATPase
Come
è noto il segnale chimico prodotto grazie
allacetilcolina, si traduce a livello
del sarcolemma nuovamente in segnale elettrico.
Se infatti una quantità sufficientemente
elevata di questo neurotrasmettitore si lega
ad i recettori post-sinaptici, aumenta la permeabilità
del sarcolemma stesso nei confronti del sodio,
da qui risulta una depolarizzazione della membrana
e la propagazione di un potenziale di azione
che si propaga lungo il sarcolemma. Questo potenziale
viene in seguito trasmesso ai tubuli traversi
(sistema T) verso linterno della cellula.
In questa sequenza di eventi sono implicate,
sia la pompa Na+/K+ ATPase,
al livello del sarcolemma, che la pompa Ca++
ATPase, a livello del reticolo sarcoplasmatico.
Le due pompe regolano i gradienti ionici trans-membranari
che sono necessari al fenomeno eccitatorio ed
allattivazione dellaccoppiamento
acto-miosinico. La pompa Ca++ ATPase
presenta una forte specificità in rapporto
ad i vari tipi di fibra e ne condiziona la velocità
di contrazione, al contrario la pompa Na+/K+
ATPase presenta poche differenze in rapporto
alla tipologia delle fibre muscolari. Numerose
sperimentazione, effettuate su muscolo in vivo,
dimostrano come il bloccaggio di queste due
pompe, causi un abbassamento della capacità
di contrazione (Nielsen e Harrison, 1998). Alla
fine di un esercizio condotto ad esaurimento
il ritorno ad uno stato di omeostasi della pompa
Na+/K+ ATPase, si presenta
più rapido di quello relativo alla pompa
Ca++ ATPase (Green, 1998), tuttavia
lalterazione della funzionalità
della pompa Na+/K+ ATPase,
che si verifica in condizioni di fatica, altera
significativamente il gradiente membranario
del potassio (McLester, 1997). Durante gli esercizi
prolungati, soprattutto svolti ad una certa
intensità, si verifica unimportante
fuoruscita di potassio, tale da essere notabile
anche a livello della differenza artero-venosa
del catione stesso. La riduzione del potenziale
di azione che ne consegue, che è dellordine
di circa il 50%, potrebbe essere sufficiente
per modificare la funzionalità dei tubuli
traversi ed impedire la liberazione di Ca++
dal reticolo sarcoplasmatico, situazione che
porterebbe ad una diminuzione della capacità
di produzione della forza da parte del muscolo
(Nielsen e Overgaard, 1996; Rios e coll., 1991;
Rios e Pizzarro, 1988). La capacità di
resistenza contrattile, sembrerebbe quindi dipendere
dallefficienza della pompa Na+/K+,
anche se per alcuni Autori (Sjogaard, 1996),
il ruolo del potassio nellinsorgenza della
fatica dipenderebbe dalla natura della sperimentazione
(in vivo oppure in vitro) e dallintensità
del lavoro imposto. In vivo ed a bassa intensità
di lavoro infatti il ruolo del potassio, nel
fenomeno dinsorgenza della, fatica sarebbe
alquanto limitato, e lapparizione questultima
dipenderebbe essenzialmente ad una disfunzionalità
del sistema T (Sjogaard, 1996). Al contrario
nel caso in cui siano presenti unalta
frequenza ed un importante intensità
di contrazione, si verifica una significativa
elevazione del gradiente extracelluare di potassio
che si accompagna, sia ad una diminuzione del
potenziale di membrana, che del potenziale di
azione e di velocità di propagazione
dellonda elettrica (Sjogaard, 1996).
Questo
aumento del gradiente extracellulare di potassio,
influenzerebbe a sua volta il fenomeno di retrocontrollo
del debito sanguigno muscolare locale, la cui
conseguenza potrebbe essere la stimolazione
di chemiorecettori arteriosi che indurrebbero
un aumento della pressione arteriosa (Paterson,
1996). Il ruolo del potassio nellinsorgenza
della fatica verrebbe ulteriormente confermato
dal fatto in numerose sperimentazioni, nelle
quali veniva aggiunto potassio nellambiente
cellulare, si verificava inequivocabilmente
una diminuzione della produzione di forza, anche
in un muscolo inizialmente non affaticato (Sjogaard,
1996). Nelle sperimentazioni in vitro,
al contrario, non è possibile attribuire
al potassio un ruolo particolarmente importante
nellinsorgenza della fatica, a causa della
sua diluizione immediata nellambiente
cellulare. Nelle esperienze in vitro,
è piuttosto il calcio che si presenta
sempre ben correlato alla produzione di forza.
Tuttavia
occorre riportare come in bibliografia sia possibile
ritrovare protocolli sperimentali nei quali
laffaticamento sia sopravvenuto senza
che peraltro si potessero registrare significativi
incrementi del potassio extra-cellulare (Sjogaard,
1996), in alcune di queste situazioni
infatti il potenziale membranario e lampiezza
del potenziale dazione rimanevano sostanzialmente
stabili, anche in presenza del fenomeno di affaticamento,
e laumento del gradiente extra-cellulare
di potassio poteva addirittura influenzare positivamente
la produzione di forza. Questi dati ci fanno
quindi chiaramente intuire come il potassio
non sia lunico elemento responsabile della
fatica muscolare e come comunque non agisca
sempre in modo diretto.
Altri
fenomeni che potrebbero essere collegati allinsorgenza
della fatica, riscontrabili nelle sperimentazioni
in vivo, possono essere costituiti dallapparizione
di sostanze antagoniste dellacetilcolina
a livello della giunzione neuro-muscolare oppure
dallaccumulo di protoni.
IL CALCIO INTRACELLULARE E LACCOPPIAMENTO
ECCITAZIONE-CONTRAZIONE
Allinterno
della cellula linsorgenza della fatica
sembra legata ad una fenomenologia piuttosto
complessa concernente sostanzialmente delle
variazioni, sia nella distribuzione e nei legami,
oltre che nella concentrazione e nei movimenti
del calcio (Williams e coll., 1995). Alcuni
lavori (Westerblad e coll., 1990) in effetti
mostrano come dopo un periodo di contrazione
tetanica ad alta frequenza compreso tra i 5
ed i 10 secondi, la concentrazione di Ca++
risultasse minore al centro della fibra in rapporto
a quanto non fosse al bordo della fibra stessa
, questo dato indicherebbe un deficit di liberazione,
al centro della fibra, probabilmente dovuto
ad un difetto del potenziale di azione del sistema
T. Occorre a questo proposito considerare che,
dal momento che il sistema T non è solamente
devoluto a veicolare il potenziale dazione
ma anche ad indurre una sorta di retroregolazione
nei confronti dellaccumulo degli ioni
calcio, un loro cospicuo aumento potrebbe elevare
la soglia di propagazione del potenziale dazione
del sistema T stesso (McLester, 1997). Nonostante
tutto, comunque il ruolo del sistema T e del
reticolo sarcoplasmatico nellinsorgenza
della fatica periferica, non è ancora
del tutto chiaro, anche se alcuni Autori (Chin
e Allen, 1998; Linde e coll, 1998.) concordano
nellassociare la fatica con almeno tre
meccanismi legati al calcio di cui i primi due
sono costituiti da una diminuzione, sia della
sua liberazione, che del suo ripompaggio da
parte del reticolo sarcoplasmatico ed il terzo
è rappresentato da un abbassamento della
sensibilità delle miofibrille sempre
nei confronti del Ca++ stesso. Anche
il pH locale, come vedremo in seguito, potrebbe
giocare un qualche ruolo attivo in questo tipo
di meccanismo. In definitiva dunque tutte queste
modificazioni riguardanti la concentrazione
del Ca++ intracellulare, costituiscono
una forte causa di perturbazione del meccanismo
di accoppiamento eccitazione-contrazione, anche
se occorre sottolineare che la diversa tipologia
delle fibre è differentemente influenzata
da questa catena di eventi. Le fibre ossidative
infatti vengono meno perturbate dalle variazioni
della concentrazione di Ca++ intracellulare,
durante il loro ciclo di accoppiamento eccitazione-contrazione,
rispetto alle fibre glicolitiche (Stephenson
e coll., 1998), questo diverso comportamento
potrebbe spiegare, almeno in parte, la loro
maggior resistenza alla fatica.
IL RUOLO DELL ACIDOSI
Il
metabolismo dellATP è strettamente
legato a quello dei protoni ed allequilibrio
acido-basico del sarcoplasma (Sahlin, 1994;
Linderman e Gosselink, 1994). In effetti la
quasi totalità delle reazioni ossidative
concernenti LATP, comprese la sua idrolisi
e la sua reintegrazione, vedono una liberazione
ed unassunzione di protoni da parte dellambiente.
Lidrolisi di una molecola di ATP libera
un protone, la glicolisi anaerobica citoplasmatica
forma 2 molecole di ATP per ogni molecola di
glucosio utilizzata con la conseguente liberazione
di due protoni, come daltro canto la glicogenolisi
nella quale vengono prodotte 3 moli di ATP per
ogni mole di glicogeno e comunque vengono rilasciati
nellambiente cellulare 2 protoni. Il meccanismo
anaerobico alattacido, al contrario ha un bilancio
protonico nullo, essendo la scissione della
fosfocreatina un meccanismo blandamente alcalinizzante
(Wooledge, 1998). A riposo, o nel corso dellesercizio
svolto a bassa intensità, il sistema
è leggermente sbilanciato verso un modico
accumulo di protoni, dal momento che in simili
condizioni, la loro produzione risulta maggiore,
seppur leggermente, del loro recupero, che si
attua attraverso le vie di resintesi dellATP.
Il sarcoplasma riesce comunque a mantenere nel
corso del lavoro poco intenso, un pH relativamente
stabile grazie, sia allintervento di numerosi
sistemi tampone, che alla fuoruscita dalla cellula
di protoni e di gas carbonico. Questi sistemi
sono particolarmente efficaci, basti pensare
che in totale assenza di tamponi cellulari,
il pH cellulare scenderebbe a 1.5 (Rouillon
e Candau, 2000). Alcuni di questi processi,
come ad esempio il meccanismo di trasporto dei
bicarbonati, sono stati scoperti solamente di
recente, tanto è vero che nel 1994 Linderman
e Gosselink sostenevano ancora limpermeabilità
del sarcolemma nei confronti del bicarbonato.
E facilmente comprensibile dunque come,
nonostante il loro indubbio interesse nei confronti
del fenomeno della fatica, questi aspetti siano
ancora molto inesplorati e poco conosciuti.
Possiamo comunque dire che il potere tampone
del muscolo scheletrico risulta maggiore di
quanto non sia quello plasmatico ma minore di
quello eritrocitario e che i principali sistemi
tampone sono costituiti dal sistema bicarbonato/acido
carbonico, dal sistema proteina/proteinato e
dal sistema fosfato monoprotonico/fosfato diprotonico.
Dal momento che negli esercizi di alta intensità
la cui durata vada oltre qualche secondo, la
risentesi dellATP avviene essenzialmente
tramite il meccanismo anaerobico lattacido,
la concentrazione di protoni nellambiente
cresce rapidamente, superando ben presto le
possibilità di controllo del sistema
tampone , il risultato è un rapido abbassamento
del pH sarcoplasmatico (Mannion e coll., 1995).
La perfusione degli ioni H+ dalla
fibra muscolare al torrente circolatorio, avviene
con una velocità di circa 30 volte maggiore
rispetto a quanto non sia per lo ione lattato
(La-), questo grazie alla loro minor
dimensione (Shepard, 1986). Circa un terzo degli
H+ non sarebbe comunque associato
agli La-, questo starebbe ad indicare
limportante ruolo giocato in questo senso
dal sistema di scambio sodio/protoni e dai sistemi
bicarbonato-dipendenti (Bangsbo e coll., 1990).
Il ruolo dellabbassamento del pH nellinsorgenza
del fenomeno della fatica è un argomento
molto indagato e per alcuni aspetti controverso
(Allen e coll., 1995; Chin e Allen, 1998; Fitts
e Metzger, 1993; McLester, 1997; Westerblad
e coll., 1991) e lelenco delle conseguenze
fisiologiche che i vari Autori attribuiscono
allacidosi è molto lungo: diminuzione
dellattività della pompa sodio/potassio
con conseguente apertura dei canali potassici,
diminuzione della fissazione del calcio sulla
troponina, dato il suo antagonismo con gli H+,
diminuzione nella formazione del numero di ponti
acto-miosinici, diminuzione della velocità
di accorciamento, diminuzione dellenergia
cellulare dovuta ad un abbassamento dellattività
enzimatica principalmente della fosfofruttochinasi,
diminuzione della miosina ATPasi (che vede il
suo pH ideale situato a 7.2), diminuzione sia
delluscita di calcio, che di protoni dalla
cellula, aumento della rigidità delle
proteine. Tutto questo quadro viene ulteriormente
aggravato in condizioni dipertermia. Numerosi
studi confermano il ruolo effettivo sostenuto
dallacidosi muscolare nellinsorgenza
della fatica nel corso di esercizi svolti ad
alta intensità e di media durata (Linderman
e Gosselink, 1994). Daltro canto una controprova
indiretta dellimportanza dellabbassamento
del pH muscolare nel fenomeno della fatica,
è costituito dallaumento della
massa muscolare stessa, e quindi del potere
tampone del muscolo, in seguito ad alcuni tipi
di allenamento (Juel, 1998). Tuttavia sono molte
le perplessità espresse in merito allabbassamento
del pH come maggiore responsabile della situazione
di affaticamento periferico. Quelle che potremmo
definire come "divergenze interpretative",
vanno dalla messa in discussione dei metodi
dindagine utilizzati, come ad esempio
il fatto che nella fibra isolata i protoni escano
più velocemente di quanto non facciano
nella fibra in vivo, sino alla critica di alcuni
aspetti maggiormente specifici. Secondo alcuni
Autori il lattato non sarebbe né il solo,
né tanto meno il principale fornitore
di protoni nel corso dellesercizio muscolare.
Secondo i dati riportati da Sahlin (1992) il
pH riscontrato su di un prelievo bioptico muscolare
in condizioni di riposo e di fatica, passa da
un valore di 7.1 a quello di 6.6, in queste
condizioni la concentrazione di lattato aumenta,
passando da 1 a 30 mmol . l-1 di
acqua intracellulare. Contemporaneamente la
degradazione di PCr e di ATP prima in ADP e
susseguentemente in AMP provoca la liberazione
di grandi quantità di acido fosforico
(H3PO4) che vede aumentare
la sua concentrazione da 17 a 49 mmol l-1
di acqua intracellulare. Sapendo che il pH rappresenta
il logaritmo decimale su base negativa (ossia
dellinverso) della concentrazione di protoni,
possiamo calcolare, sia la concentrazione di
protoni prima dellesercizio (79 nmol l-1
: 1 nmol = 10-6 mmol), che quella
riscontrabile dopo lesercizio stesso (251
nmol l-1): In questaumento
di concentrazione di protoni post-esercizio,
che è quindi di 172 nmol l-1,
il contributo della degradazione dei composti
fosforici ad alta energia (PCr, ATD, ADP) sarebbe
di 1.5 volte maggiore rispetto a quello del
lattato (Sahlin, 1992).
Sempre
Sahlin (1992) ed altri Autori (Hirvonen e coll.,
1987; 1992), farebbero osservare come durante
un esercizio di breve durata svolto ad alta
intensità, la degradazione di PCr e laccumulo
di lattato siano tra loro in un rapporto molto
vicino, se non eguale, ad 1:1. In altre parole
questi Autori sottolineano il fatto che quando
la concentrazione di lattato aumenta di 1 mmol
l-1, quella di PCr diminuisce di
altrettanto. Come è noto La formazione
di una mole di creatina, proveniente dalla degradazione
di una mole di PCr, permette leliminazione
di una mole di protone e di una mole di lattato,
in tal modo la degradazione della PCr tamponerebbe
la gran parte dei protoni forniti dalla glicolisi
anaerobica. Se è indubbio che la contrazione
muscolare, effettuata al di là di una
certa intensità, provochi un abbassamento
del pH, che è a sua volta responsabile
dellinibizione della PFK (fosfosfofruttochinasi),
lenzima chiave della glicolisi lattacida
, è altrettanto vero che il fenomeno
che interagisce tra questi due fattori, acidificazione
dellambiente ed inibizione della PFK,
non è sempre perfettamente chiaro. Lattività
ottimale dellenzima PFK si trova ad un
pH di 7.03, ossia molto vicino al pH che presenta
il muscolo a riposo, la caduta del pH sino a
valori di 6.63, livelli daltro canto facilmente
raggiungibili nel corso di unesercitazione
intensa, vede in effetti abbassarsi praticamente
a zero lazione dellenzima chiave
del meccanismo glicolitico. Tuttavia anche in
simili condizioni, un certo numero di composti,
che sono presenti a livello muscolare, sono
in grado di rimuovere lazione inibitrice
svolta dai protoni sulla PFK stessa. Ad esempio
ad un pH pari a 6.63, laggiunta di fosfato
inorganico, sino al raggiungimento del livello
di 20 mmol . l-1,riporta lattività
enzimatica della PFK a circa il 40% delle sue
capacità (assumendo come 100% dellattività
della PFK quella registrabile a pH 7.3). Anche
laggiunta di ADP, in ragione di 0.5 mmol
l l- riporta lattività
enzimatica della fosfofruttochinasi al 55% delle
sue piene potenzialità, mentre queste
ultime rimontano sino a ben il 70% dopo laggiunta
di una pur scarsa quantità di fruttosio
1,6 bifosfato, composto quest ultimo,
che sappiamo essere ben presente nel muscolo
in attività, nel quale svolge peraltro
degli importanti ruoli di regolazione (Perronet,
1994). Questi dati potrebbero quindi inficiare
la teoria secondo la quale laccumulo di
lattato, ed il conseguente abbassamento del
pH, inibirebbero lattività della
PFK, o per meglio dire, sottolineerebbero il
fatto che tale fenomeno sia perfettamente osservabile
in sperimentazioni effettuate su muscolo isolato
ma non altrettanto evidente sul muscolo in vivo,
nel quale il livello di ATP e di fruttosio 6
fosfato ( da cui per fosforilazione da parte
dellATP deriva il fruttosio 1,6 bifosfato)
sono molto più elevate.
Anche
il ruolo dellabbassamento del pH sullapparato
contrattile potrebbe essere comunque messo in
discussione. E conoscenza comune lantagonismo
esistente tra i protoni e gli ioni calcio sui
siti di legame della troponina. Questo sarebbe
in effetti un meccanismo di difesa del muscolo
che inibendo appunto il meccanismo di contrazione
in presenza di un pH eccessivamente basso, previene
i possibili danni che potrebbero conseguire
al perdurare della contrazione muscolare in
un ambiente estremamente acido. Tuttavia se
si osserva landamento durante la fase
successiva ad un esercizio muscolare intenso
del ripristino del pH e delle capacità
contrattili del muscolo, possiamo quantomeno
mettere in dubbio le affermazioni precedenti.
Dopo una contrazione di tipo isometrico, mantenuta
sino a quando la forza espressa non cada al
50% della forza massimale volontaria, si registra
in effetti un pH molto basso (6.1-6.6), durante
la fase di recupero il pH ritorna verso valori
normali solamente in tempi molto lunghi dellordine
di circa 10 minuti, inoltre durante i primi
2 circa della fase di recupero il pH continua
ad abbassarsi, nonostante linterruzione
del lavoro fisico, questa ulteriore acidificazione
dellambiente muscolare è dovuta
alla liberazione di protoni che avviene durante
la resintesi della creatina in PCr. Nonostante
il fatto che il ritorno del livello del pH verso
i valori di riposo sia un processo relativamente
lento, dellordine come abbiamo detto di
una decina di minuti, il muscolo riesce a ristabilire
le sue capacità contrattili in un arco
di tempo molto più breve. Infatti dopo
il mantenimento di una contrazione isometrica
che prosegua sino a che la forza generata non
cada a valori pari al 50% della massima forza
isometrica, il muscolo recupera completamente,
ritornando quindi in grado di generare nuovamente
la stessa forza, dopo un periodo di riposo compreso
tra i 2 ed i 3 minuti (Sahlin e Ren, 1989).
Nella corso dello stesso studio i due Autori
notarono come dopo 2 minuti di recupero la diminuzione
del livello degli H+ dovuta alla
metabolizzazione del lattato, fosse completamente
controbilanciato dal rilascio di altri H+
dovuti alla resintesi della PCr. Il fatto quindi
che il muscolo possa ritrovare le sue piene
capacità contrattili anche in mancanza
di un innalzamento del pH, getta numerosi dubbi
sullassunto secondo il quale labbassamento
del pH, dovuto allaccumulo di lattato,
sia il responsabile dellinibizione contrattile
del muscolo e quindi il responsabile dellinsorgenza
del fenomeno della fatica periferica. Per cui,
anche se in effetti la fatica muscolare appare
in presenza di un abbassamento del pH, le evidenze
sperimentali, in tutto rigore, escluderebbero
un rapporto di linearità tra pH e forza
e/o pH e fatica e non permetterebbero di andare
al di là di una relazione di coincidenza
tra i due fenomeni in causa (Chin e Allen, 1998).
Daltro canto in bibliografia esistono
numerosi esempi di sperimentazioni che riferiscono
linsorgenza del fenomeno della fatica
anche senza il verificarsi di acidosi muscolare
(per una review vedi Allen e coll., 1995) Alcuni
Autori infine proporrebbero di considerare la
fase del recupero in due periodi distinti, il
primo dei quali considerabile come "periodo
di recupero rapido", sarebbe caratterizzato
da un veloce ritorno verso lo stato basale del
meccanismo di accoppiamento eccitazione/contrazione
e di regolazione del calcio e risulterebbe pH-indipendente,
ed un secondo, più lento, che sarebbe,
almeno in parte, legato al ritorno verso i valori
basali, sia dei protoni, che dei fosfati (Fitts
e Metzger, 1993). Tuttavia occorre comunque
ricordare che alcuni studi recenti svolti su
modello animale, nei quali una perfusione di
La (con concomitante mantenimento del pH a valori
basali) faceva registrare una diminuzione della
forza contrattile ( Hogan e coll, 1995), potrebbero
riaprire il dibattito sul ruolo del lattato
nellinsorgenza della fatica. Per giustificare
questi risultati gli Autori avanzavano lipotesi
dellaumento della forza ionica che sarebbe
la responsabile di unalterazione nella
formazione dei ponti acto-miosinici. In questo
senso va anche un'altra sperimentazione, sempre
effettuata su modello animale, nella quale gli
Autori concludono che laumento di La possa
avere un effetto negativo sulla capacità
di produzione di forza da parte del muscolo,
probabilmente a causa di un meccanismo dinibizione
nei confronti del rilascio di Ca++
da parte del reticolo sarcoplasmatico (Stephenson
e coll., 1998).
Il
ruolo dei fosfati inorganici nella forma mono
e diprotonica
I
fosfati inorganici (Pi) sono dei metaboliti
derivanti dallidrolisi dellATP e
della PCr e la loro concentrazione tende ad
aumentare nellambiente indipendentemente
dalla durata dellesercizio svolto. In
bibliografia si possono ritrovare numerosi lavori
che tendono ad evidenziare il ruolo svolto da
queste sostanze nella diminuzione della prestazione
fisica legata allinsorgenza della fatica,
oppure allischemia od allipossia.
Laggiunta di poche millimoli di Pi nellambiente
muscolare induce una diminuzione della capacità
contrattile, con una conseguente diminuzione
della produzione di forza ed un cambiamento
, sia del ciclo oscillante, che dellattività
ATPasica. Vale la pena soffermarci a questo
punto sul meccanismo del " ciclo oscillante":
quando le fibre muscolari oscillano a 5-15 Hz
per circa il 2% della loro lunghezza di riposo,
sono in grado di produrre unimportante
potenza meccanica idrolizzando praticamente
il doppio quantitativo di ATP, per unità
media di tensione, rispetto alla condizione
statica. Lattività ATPasica risulta
correlata linearmente alla tensione media prodotta
durante loscillazione. Laggiunta
di Pi o di solfato riduce, sia il costo della
tensione, che la frequenza ottimale di oscillazione
di lavoro perturbando in tal modo il sistema
(Pybus e Tregear 1975). I Pi sono presenti a
livello organico in due forme: la prima monoprotonica
e la seconda diprotonica la cui proporzione
di presenza dipende dalla concentrazione dei
protoni presente nellambiente. Nel momento
in cui il pH cellulare si abbassa, pressoché
la totalità del Pi presente passa alla
forma diprotonica. Questo passaggio del Pi dalla
forma monoprotonica a quella diprotonica è
correlato alla diminuzione della forza contrattile,
mentre questa correlazione non si registra con
la forma monoprotonica. Questi effetti variano
in rapporto alla tipologia delle fibre con ogni
probabilità in ragione della diversa
sensibilità che le fibre medesime presentano
per ciò che riguarda la loro attività
ATPasica nei confronti del Pi. Nel caso di esercizi
di breve durata svolti ad alta intensità,
il verificarsi di un rapido ed importante accumulo
di Pi, dovuto al massiccio intervento del meccanismo
anaerobico alattacido, costituisce uno dei più
importanti fattori responsabili dellinsorgenza
della fatica muscolare, assumendo in questo
caso una valenza ancor maggiore di quella rivestita
dai meccanismi di perturbazione ionica. Questo
sarebbe tuttavia in contraddizione con quanto
riportato da alcuni studi (Greenhaff, 1995;
Mujika e Padilla, 1997) che riferiscono come
una supplementazione di creatina possa, aumentando
le scorte di fosfocreatina, ritardare lapparizione
del fenomeno della fatica. In effetti una supplementazione
di creatina, generando attraverso il fenomeno
dellidrolisi Pi, dovrebbe al contrario
essere un fattore inducente la fatica (Sahlin
e coll., 1998.). Anche durante le esercitazioni
di lunga durata svolte a bassa intensità,
il sistema dei fosfageni, che in questo caso
si trova accoppiato ad un forte fenomeno di
idrolisi dellATP, può comunque
indurre un fenomeno di elevazione della concentrazione
di Pi tale da comportare il passaggio dei ponti
actomiosinici dal loro livello di alta produzione
di forza a quello basso, fenomeno che potrebbe
essere alla base della teoria del sistema oscillante
proposto da Mc Lester (1997). Lallenamento
potrebbe giocare un ruolo sostanziale nellincidenza
dei fenomeni sopra descritti, inducendo una
progressiva tolleranza a concentrazioni di Pi
sempre maggiormente elevate (Mc Lester, 1997).
Il
ruolo delladenosindifosfato
Recentemente
alcuni ricercatori hanno rivolto la loro attenzione
al possibile ruolo svolto dalladenosindifosfato
(ADP) nellinstaurarsi del fenomeno della
fatica periferica, prendendo in considerazione
anche il rapporto ADP/ATP (Allen e coll., 1995;
Mc Lester, 1997; Sahlin, 1998). Questo composto,
come sottolineato nel modello energetico proposto
da Mc Lester (1997), svolgerebbe un ruolo di
primo piano nel meccanismo di transizione dallo
stato di bassa a quello di alta energia ed è
inoltre considerabile a tutti gli effetti come
il principale responsabile del distacco dei
ponti acto-miosinici. Nel momento in cui la
sua concentrazione subisce un sostanziale aumento,
lADP ostacola l ATP nel meccanismo
di distacco dei ponti actomiosinici, diminuendo
in tal modo la forza prodotta dal sistema oscillante.
Questo effetto dinibizione sul distacco
dei ponti verrebbe ulteriormente enfatizzato
in presenza di basse concentrazioni di ATP.
Il ruolo dellA componente lenta del VO2
nel caso particolare della corsa.
Durante
uno sforzo ciclico effettuato ad un carico costante
dintensità inferiore a quella della
prima soglia ventilatoria, soprattutto se svolto
in posizione eretta come nel caso della corsa,
è possibile notare un primo repentino
incremento del VO2, essenzialmente
ascrivibile al veloce aumento del flusso ematico
polmonare, che caratterizza la prima fase denominata
"cardioritmica", alla quale fa seguito
una seconda fase, caratterizzata da un aumento
meno ripido del VO2, legata allarrivo
del flusso ematico proveniente dai distretti
muscolari attivi. Questa seconda fase porta
a sua volta, in circa 3, al raggiungimento
della terza fase, detta di stady-state, in cui
il consumo di O2 si stabilizza.
Nello
svolgimento di un lavoro effettuato ad unintensità
maggiore rispetto alla prima soglia ventilatoria,
la cinetica del VO2 cambia sostanzialmente.
In questo caso infatti alla seconda od alla
terza fase, si sovrappone una nuova componente
caratterizzata da una cinetica più lenta
che, appunto per questa sua caratteristica,
prende il nome di "componente lenta del
VO2". La componente lenta del
VO2 (cl VO2) rappresenterebbe
quindi un "eccedenza" di VO2
che, sino a determinati carichi, consente il
raggiungimento di uno steady-state ritardato.
Nel caso invece in cui i carichi di lavoro siano
particolarmente intensi, non diviene più
possibile il raggiungimento di uno stato di
steady-state ed in tal caso la cl VO2
concorrerebbe al raggiungimento del massimo
valore di VO2, valore peraltro superiore
a quello prevedibile dalla relazione VO2/carico
sotto soglia (W) e quindi al rapido raggiungimento
dellesaurimento da fatica. La cl VO2
comporterebbe un aumento del costo VO2/W,
che passerebbe dai circa 10 ml /W registrabili
sotto-soglia, ai circa 12-13 ml/W osservabili
durante il lavoro sopra-soglia (Maione e coll.,
20001), evidenziando in tal modo una perdita
di efficienza muscolare. La cl VO2
viene pressoché unanimemente spiegata
dai diversi Autori, attraverso fenomeni prevalentemente
muscolari legati al progressivo reclutamento,
durante lattività svolta ad alta
intensità, di fibre di tipo II, il cui
rendimento è minore rispetto a quelle
di tipo I. La cl VO2 quindi farebbe
parte integrante del fenomeno della fatica e
sarebbe une delle principali cause, in attività
come la corsa, della progressiva riduzione dellefficienza
muscolare (Whipp e Wassermann, 1970; Jacobsen
e coll., 1998).
Figura
1 : la componente lenta del VO2.
LA
FATICA CENTRALE
Con
il termine di fatica nervosa o centrale si intende
tutto quel complesso di fattori che determinano
la diminuzione della contrattilità muscolare
indipendentemente dai fattori intramuscolari
e/o metabolici. Limplicazione di fenomeni
centrali nellinsorgenza della fatica è
dimostrata da alcune sperimentazioni (Bigland-Ritchie
e coll., 1979) che dimostrano come la stimolazione
elettrica di un complesso muscolare affaticato,
permetta di recuperare una certa percentuale
del livello iniziale di forza. In questo tipo
di sperimentazioni alcuni soggetti furono sottoposti
ad un lavoro di tipo intermittente a carico
del soleo, sino a che non fosse raggiunto un
livello di affaticamento tale da diminuire la
forza del distretto muscolare sino al 50% della
massima capacità contrattile. Raggiunta
una simile situazione, gli Autori riferiscono
di come limposizione di una stimolazione
elettrica permetta di ritrovare un livello di
forza pari all80% del livello massimale,
attribuendo in tal modo la differenza tra i
due valori alla fatica di tipo centrale. Occorre
tuttavia notare che il parziale recupero dei
livelli iniziali di forza indotto dallelettrostimolazione,
risulterebbe essere dipendente, sia dal gruppo
muscolare considerato, che dal tipo di esercitazione
che ha causato la condizione di affaticamento,
senza dimenticare lo stato motivazionale del
soggetto (Guézennec, 2000). In ogni caso
questi dati sottolineerebbero come, in stato
di affaticamento, il Sistema Nervoso Centrale
(SNC) sia incapace di generare uno stimolo adeguato
(Bigland-Ritchie e coll., 1979; Enoka e Stuard,
1992). Oltre a questo effetto sulla fatica acuta,
altri Autori hanno dimostrato come lelettrostimolazione
sia in grado di permettere un parziale recupero
dei livelli di forza persi in seguito ad un
fenomeno di fatica cronica come quello costituito
dal sovrallenamento (Bayley e coll., 1993).
Tuttavia questo tipo di sperimentazioni basate
sulla contrazione elettroindotta, non riesce
a dimostrare appieno il ruolo che il comando
nervoso, proveniente dal SNC, ricopre nellinsorgenza
della fatica, lelettrostimolazione infatti
può indurre anche un potenziamento del
comando nervoso periferico, provocando in tal
modo un aumento in toto del comando nervoso
che arriva a livello muscolare. Per questo motivo
quindi la stimolazione elettrica non può
essere considerata come una tecnica specificatamente
rivolta allindagine del fenomeno della
fatica indotta da un deficit di funzionamento
del SNC. Non mancano comunque esempi in letteratura
che, proprio per dimostrare senza possibilità
possibili dubbi il ruolo del SNC nellinsorgenza
del fenomeno della fatica, hanno utilizzato
come tecnica di studio la stimolazione diretta
della corteccia motoria. In questambito
uno studio condotto da Maton sui primati (1991),
utilizzando una tecnica di registrazione dellattività
elettrica cerebrale dei neuroni della corteccia
motoria primaria, tramite un impianto elettrodico
intracranico, dimostrò come la contrazione
esaustiva del bicipite brachiale comportasse
una diminuzione dellattività elettrica
dei neuroni considerati. Il ruolo ricoperto
dalla corteccia motoria primaria nellinsorgenza
della fatica, è stato confermato in seguito
anche nelluomo grazie allutilizzo
di una tecnica non invasiva, costituita dalla
stimolazione della corteccia primaria tramite
dei campi magnetici intensi (Gandevia e coll.,
1996). Attraverso questo studio gli Autori hanno
potuto dimostrare come la superimposizione di
una corrente magnetica transcranica permetta
di diminuire parzialmente gli effetti che la
fatica provoca sulle possibilità di mantenimento
della forza contrattile. Tuttavia occorre notare
che una parte degli effetti della fatica non
può comunque essere spiegata attraverso
lutilizzo di queste tecniche. In ogni
caso tutte le sperimentazioni che si basano
sulla stimolazione, effettuata a diversi livelli
del tratto nervoso, permettono di formulare
la verosimile ipotesi dellesistenza di
una fatica di ordine centrale, evidenziabile
attraverso una diminuzione del comando nervoso
preposto alla contrazione muscolare, anche se
il ruolo dei fattori di ordine metabolico periferico
giocano un ruolo predominante per ciò
che riguarda la diminuzione delle capacità
contrattili muscolari. Inoltre alcuni aspetti
della fatica di ordine centrale restano ancora
da chiarire completamente, come ad esempio il
fatto che il fenomeno sia riconducibile ad un
meccanismo inibitorio che si presenterebbe a
livello di alcuni gruppi di neuroni, oppure
sia piuttosto costituito da un fenomeno inibitorio
più generalizzato, causato dai dei meccanismi
che agiscono a livello globale sullinsieme
delle funzioni nervose. La risposta a questo
tipo di domanda non è ancora del tutto
chiara, anche se le attuali teorie neurochimiche
della fatica sembrerebbero propendere maggiormente
per la seconda ipotesi (Guezennec, 2000).
GLI
ASPETTI NEUROCHIMICI DELLA FATICA CENTRALE
Levidenza
del ruolo della fatica centrale, comprovato
attraverso le varie sperimentazioni di tipo
elettrofisiologico, ha spinto numerosi Autori
a formulare differenti ipotesi sul ruolo svolto
dai neuromediatori centrali nel corso dellesercizio
esaustivo (per una review vedi Meeusen e coll.,
1995). Tutti gli studi rivolti a questo particolare
aspetto del fenomeno, dimostrano ampiamente
coma la fatica induca, sia nelluomo, che
nellanimale, un cambiamento del modello
comportamentale (Dishman, 1997). Nell
animale si può sostanzialmente notare
una diminuzione delle attitudini comportamentali
rivolte alla vita di relazione, mentre nelluomo
le risposte sono maggiormente complesse e sembrano
dipendere dal tipo di attività responsabile
del fenomeno di affaticamento. Possiamo tuttavia
in linea generale osservare nel modello umano,
come conseguenza ad un esercizio di tipo esaustivo,
una diminuzione delle capacità decisionali,
sia per quello che riguarda la capacità
di presa dinformazione, sia per ciò
che concerne linterpretazione dei segnali
visivi (Koutedakis, 1995), nonché una
diminuzione della memoria a corto termine (Guézennec,
2000). Inoltre la fatica cronica può
essere allorigine di uno stato ansiogeno
o depressivo (Dishman, 1997). Anche la secrezione
di catecolamine potrebbe giocare un ruolo importante
negli aspetti di natura neurochimica legati
alla fatica centrale. Alla fine di un esercizio
esaustivo è infatti possibile notare
nel tessuto cerebrale una diminuzione della
concentrazione di noradrenalina, che sembrerebbe
essere dovuta ad un aumento del suo turn
over. Lo stesso fenomeno è osservabile,
in maniera ancor più evidente, a livello
del tronco cerebrale, dellippocampo e
dellipotalamo (Gandevia e coll., 1996).
Questo quadro sarebbe simile a quello osservato
nel corso di stress psicologico acuto nel quale
è appunto possibile notare una deplezione
delle riserve di catecolamine cerebrali. La
conseguenza di questa diminuzione nelle riserve
di noradrenalina si ripercuoterebbe a livello
comportamentale e potrebbe essere responsabile
dellinsorgenza di possibili stati depressivi.
Rimanendo
nellambito della risposta adrenergica,
è importante notare che anche la dopamina
può influenzare fortemente lattività
muscolare. Laumento dellattività
dopaminergica nello striatum induce infatti
un aumento spontaneo della motricità..
A livello cerebrale, durante un esercizio prolungato
è possibile osservare in un primo tempo
un leggero aumento della concentrazione dopamina,
a cui fa seguito, nella seconda parte dellesercizio
stesso, quando questultimo si avvicina
al punto di esaurimento, una sua leggera diminuzione
(Seguin e coll., 1998). Questa variazione della
concentrazione di dopamina cerebrale nel corso
di un esercizio prolungato che porti ad esaurimento,
potrebbe essere giustificata dal fatto che questo
neuromediatore attraversi una prima fase accelerata
di liberazione a cui consegua una seconda fase
di diminuzione secretoria dovuta ad un esaurimento
delle sue riserve neuronali. Sempre a questo
proposito è stata avanzata lipotesi
di una deplezione di tirosina che costituisce
il precursore delle catecolamine. In qualsiasi
caso il ruolo ricoperto dalle catecolamine nellinsorgenza
dellaffaticamento organico, è sperimentalmente
provato dal fatto che la somministrazione, prima
dellesercizio, di anfetamina e di agonisti
dopaminergici e/o adrenergici, aumenta nellanimale
la durata di sopportazione allo sforzo (Seguin
e coll., 1998).
IL
RUOLO DELLA SEROTONINA NELLINSORGENZA
DELLA FATICA
Il
ruolo svolto dalla serotonina nel fenomeno della
fatica organica, è ormai divenuto un
aspetto dogmatico del problema in seguito soprattutto
ai lavori di sintesi svolti da Newsholmes e
coll. (1987) e Chauloff (1989). Questultimo
fu il primo a mettere in evidenza sperimentalmente
laumento della concentrazione di serotonina
a livello cerebrale in seguito ad esercizio
prolungato e/o ad allenamento inteso protratto
per più settimane. Daltro canto
numerosi altri lavori, anche se non in ambito
prettamente sportivo, avevano già sottolineato
il ruolo della serotonina sul sonno, lassunzione
alimentare, gli stati ansiosi e quelli depressivi.
A questo proposito ad esempio possiamo ricordare
come sia da tempo noto che uno stato ansioso
sia caratterizzato da un aumento della concentrazione
cerebrale di serotonina, mentre al contrario,
uno stato depressivo veda ridursi i livelli
di serotonina cerebrale. Per tutta questa serie
di motivi il fatto che allesercizio prolungato
che conduce al fenomeno della fatica, consegua
un aumento dei livelli di serotonina cerebrale,
ha portato alla naturale formulazione dellipotesi
che questo neuromediatore sia fortemente implicato,
se non addirittura il responsabile principale,
dellinsorgenza della fatica centrale.
In questo senso numerose sperimentazioni condotte
su modello animale confermano il fatto che laumento
o la diminuzione del tono serotoninergico, indotto
attraverso lutilizzazione di agonisti
od antagonisti serotoninergici, influiscano
sul fenomeno dinsorgenza della fatica
(Bailey e coll. 1993). Occorre comunque ricordare
che lo stesso tipo di sperimentazioni condotte
sulluomo, non ha permesso di confermare
i risultati ottenuti sullanimale (Seguin
e coll., 1998). Altre sperimentazioni, sempre
effettuate allo scopo di poter confermare il
ruolo svolto dalla serotonina sulla comparsa
insorgenza della fatica, hanno utilizzato la
somministrazione di aminoacidi a catena ramificata
(AABC). Gli AABC infatti entrando in competizione
con il triptofano, sostanza precursore della
serotonina a livello del passaggio attraverso
la barriera emato-encefalica, dovrebbero limitare
la produzione di questultima a livello
cerebrale. Tuttavia i risultati ottenuti da
Blomstrand e coll., (1991), dopo la somministrazione
di AABC prima di una prova di maratona, hanno
permesso di evidenziare solamente un incremento
dei risultai ottenuti nel corso di una batteria
di test psico-sensoriali, ma non un incremento
della prestazione di gara. Questi risultati
sono in linea con quelli ottenuti da Bigland-Richie
e coll.(1979), i quali non riportano di alcun
miglioramento della performance, durante un
raid effettuato in alta quota, in seguito alla
somministrazione di AACB. Linsieme delle
sperimentazioni condotte sulluomo quindi
non permetterebbe di evidenziare nessun risultato
positivo, in termini di incremento della performance,
legato alla diminuzione del fenomeno di affaticamento,
indotto dallutilizzo di AABC. Ma vi sono
numerosi altri limiti e contraddizioni nella
teoria che vede la serotonina come principale
fattore dinsorgenza della fatica centrale,
uno di questi è costituito dalla mancanza
di coerenza tra i dati desumibili dai test comportamentali
e gli effetti psicotropi attribuibili allazione
della serotonina stessa. La fatica acuta od
il sovrallenamento cronico, infatti , indurrebbero
linsorgenza di turbe comportamentali a
sfondo principalmente depressivo caratterizzate
da una carenza serotoninergica (Guèzennec,
2000). Questi dati mal si concilierebbero con
liperserotoninergia che si registra nel
corso dellesercizio fisico strenuo. Seguin
e coll. (1998) hanno tentato di spiegare questa
contraddizione mettendo in evidenza una diminuzione
della recettività di alcuni recettori
serotoninergici in seguito allesercizio
prolungato. Daltro canto anche altri risultati
molto recenti riferirebbero di una caduta, al
di sotto dei livelli basali, della concentrazione
di serotonina in alcune aree cerebrali, riscontrabile
alla fine dellesercizio (Guèzennec,
2000). I due dati di cui sopra, potrebbero quindi
far propendere verso un ipotesi di carenza di
tono serotoninergico che sopravverrebbe durante
la fase di recupero successiva allesercizio.
In tutti i casi la mancanza di omogeneità
e di perfetta coerenza tra i vari risultati
ritrovabili in letteratura mostrano come, in
ultima analisi, sia sostanzialmente erroneo
limitare il fenomeno dellinsorgenza della
fatica centrale esclusivamente alla teoria serotoninergica.
In effetti gli aspetti comportamentali, ivi
compreso quindi il fenomeno della fatica, risultano
essere influenzati per la maggior parte dei
casi, da un delicato equilibrio esistente tra
numerosi neuromediatori. A titolo di esempio
possiamo ricordare come gli studi inerenti laspetto
neurochimico del sonno, mostrino come questultimo
dipenda da una complessa azione sinergica ed
interdipendente di numerosi neuromediatori in
altrettanto numerosi ambiti strutturali, gli
aspetti neurochimici della fatica quindi potrebbero
essere improntati su di un meccanismo del tutto,
od in parte simile a questo.
IL
RUOLO DELLAMMONIACA
Occorre
anche ricordare il possibile meccanismo dintervento
dellammoniaca legato alla manifestazione
della fatica. Lencefalo utilizza come
via di metabolizzazione dellammoniaca
la trasformazione del glutammato in glutammina.
Liperammonemia quindi provoca una diminuzione
della concentrazione del glutammato in alcune
aree cerebrali specifiche. Dal momento che il
glutammato costituisce il principale precursore
dellacido gamma amminobutirrico (GABA),
questa catena di eventi porta ad un abbassamento
della sua concentrazione a livello encefalico.
Il GABA è il neurotrasmettitore maggiormente
presente a livello del SNC ed esercita un importante
ruolo di regolazione, di tipo inibitorio, sulla
liberazione di altri neurotrasmettitori, oltre
ad agire direttamente sui nuclei grigi della
base facilitandone il compito di regolazione
che questi svolgono sulla motricità.
La carenza di GABA inoltre gioca un ruolo fondamentale
nella patogenesi di alcune malattie come il
morbo di Parkinson e la Corea di Huntington.
Tutta questa serie di dati farebbe ragionevolmente
propendere verso lipotesi che la carenza
del sistema GABAenergico, registrabile nel corso
dellesercizio intenso e prolungato, possa
giocare un ruolo importante nella manifestazione
della fatica a livello centrale. I risultati
sperimentali sembrerebbero confermare, per lo
meno parzialmente, questa ipotesi, mostrando
come il sistema GABA-glutammato-glutammina sia
particolarmente attivo, in alcune aree cerebrali,
nel corso dellesercizio esaustivo.
UN
MODELLO TRIDIMENSIONALE DELLA FATICA.
Secondo
alcuni autori il rapporto tra lintensità
dello sforzo e la sensazione di fatica può
essere anche interpretato attraverso tre modelli
fortemente interagenti tra loro.
Il
primo modello è il già descritto
modello "classico" della fatica periferica,
denominato appunto "modello periferico",
nel quale i fattori regolatori e/o inibitori
sono esclusivamente di ordine metabolico (Kay
e coll., 2001; Kirkendall, 1990; Fitts, 1994;
Basset e Howley, 1997.).
Nel
secondo modello, denominato "centrale-teleoanticipatorio"
, il meccanismo di controllo della fatica funziona
essenzialmente come un dispositivo di sicurezza
che viene posto in atto da un meccanismo subcosciente
a livello cerebrale. Il meccanismo regolatorio
cerebrale viene modulato sulla base di input,
sia centrali, che periferici, ed il cui scopo
è quello di preservare lintegrità
strutturale della fibra muscolare, prevenendo
possibili danni irreversibili a questultima
attraverso una riduzione od un arresto totale
dellattività. Nel modello "centrale-teleoanticipatorio",
il cervello svolge il ruolo di principale regolatore
dellintensità e della durata dellesercitazione,
che viene mantenuta ad un grado sub-massimale
prefissato in modo tale che il sistema periferico
non sia mai utilizzato a livelli massimali (St
Clair Gibson e coll., 2001; Wagenmakers, 1992;
Kay e coll., 2001.)
In
questo secondo modello quindi il fenomeno della
fatica può essere considerato come un
vero e proprio "atto anticipatorio di sicurezza"
che abbia lo scopo di prevenire, sia un eccessivo
accumulo di metaboliti, che unesagerata
deplezione di substrati energetici. In questo
secondo modello, lattività non
è mai massimale ma viene al contrario
mantenuta costantemente a livelli sub-massimali.
Ulmer (1996) avanza lipotesi che in questo
modello i comandi neurali efferenti regolino
a livello del muscolo scheletrico, non solamente
i pattern di attivazione spaziali e temporali,
ma anche il rateo metabolico responsabile della
produzione di potenza da parte del muscolo.
Questo tipo di meccanismo protettivo, potrebbe
spiegare come nel muscolo scheletrico la concentrazione
di ATP non scenda mai al di sotto del 60-70%
dei valori di riposo anche durante un esercizio
di tipo esaustivo (Fitts, 1994; Spriet e coll.,
1987). Il modello "centrale-teleoanticipatorio",
sarebbe quindi il responsabile del decremento
dellintensità dellesercizio
anche in presenza di sufficienti riserve energetiche,
per cui la manifestazione di fatica sarebbe
il risultato di un comando efferente di tipo
inibitorio, derivante da una sorta di "calcolo
mentale". In altre parole il decremento
dei comandi efferenti di origine neurale, sarebbe
causato dagli adattamenti a livello corticale
del processo subcosciente teleoanticipatorio
che si verificano in seguito alle risposte agli
input afferenti di origine metabolica provenienti
dagli organi e dalle strutture periferiche.
Nel terzo tipo di modello denominato di "discussione-cognitiva",
è la sensazione di fatica stessa che,
a livello cosciente, utilizzando le antecedenti
esperienze come secondo termine di paragone,
regola lintensità dellesercizio.
In questo terzo modello la fatica costituisce
una sorta di processo continuativo che modifica
costantemente lo stato funzionale dellindividuo
e modula il suo livello di attività (Kay
e coll., 2001; Kay e Marino, 2000). Nel modello
di "discussione cognitiva" si mette
quindi in atto un sinergismo tra la percezione
cosciente dello sforzo ed il sistema teleoanticipatorio
subcosciente nella regolazione dellintensità
dellattività svolta (Kirkendall,
1990; Davis JM, Bailey, 1997). Un esempio esplicativo
di questo terzo modello può essere quello
di unattività sportiva svolta in
presenza di spettatori, in questo caso lattività
stessa può risultare spesso meno gravosa
e la percezione dello sforzo minore, proprio
perché la motivazione generata dalla
fonte esterna, in questo caso gli spettatori,
può ridurre gli input afferenti periferici
provenienti dalla muscolatura (St Clair Gibson
e coll., 2001b). In questo caso si correre il
rischio di unalterazione della strategia
comportamentale nei confronti della fatica,
basata sullinfluenza degli stimoli esterni.
Infatti il livello del meccanismo di retrocontrollo
della fatica stessa, dato dallinterazione
tra il modello di discussione-cognitiva e quello
centrale-teleoanticipatorio, potrebbe elevarsi
eccessivamente, e con esso lintensità
dellesercitazione. Il modello di "discussione-cognitiva"
quindi potrebbe essere considerato come lultimo
stadio dintegrazione decisionale nei confronti
della fatica, in quanto la durata e lintensità
dellesercizio, ossia gli aspetti decisionali
nei confronti dello stesso, vengono assunti,
sia in base agli input metabolici muscolari
provenienti dal modello periferico, che secondo
lattivita centrale-teleoanticipatoria
generata dal livello corrente di attività;
questi due aspetti vengono quindi integrati
nel modello di discussione-cognitiva, nel quale
la percezione della fatica proveniente dal livello
di attività in corso, viene comparata
a precedenti esperienze di fatica (Kay e coll.,
2001). La fatica quindi in questo caso diviene
un regolatore attivo e non più una conseguenza
passiva del processo di controllo (Kay e coll.,
2001; Sargeant, 1994).
LE
MANIFESTAZIONI MIOELETTRICHE DI FATICA MUSCOLARE
Negli
ultimi anni, accanto agli studi di tipo prettamente
metabolico, si sono fortemente sviluppati dei
metodi dindagine di tipo non invasivo,
rivolti allo studio dei fenomeni bioelettrici
indotti dalla fatica. I presupposti teorici
sui quali tali studi si basano sono costituiti
dal fatto che esistono particolari condizioni
di lavoro durante le quali la produzione di
forza richiesta è talmente bassa da poter
permettere la prosecuzione del lavoro spesso
per molte ore, questi particolari tipi di lavoro
muscolare e vengono denominati low level static
exertions. Durante questo tipo di regime di
contrazione si ipotizza che le protagoniste
principali della produzione di forza siano le
unità motorie (UM) composte da fibre
di tipo ST, questa teoria in fisiologia è
nota come lipotesi di Cenerentola (Hägg.,
1991). Questa ipotesi è del resto del
tutto conforme alla legge di reclutamento di
Henneman , secondo la quale le prime UM ad essere
reclutate e de-reclutate, in una contrazione
che richieda bassi livelli di forza, sarebbero
quelle composte da fibre di tipo I. Un altro
parametro importante di cui tenere conto durante
le indagini di tipo elettromigrafico sullo studio
della fatica muscolare, è costituito
dalla pressione intramuscolare (PI). Le caratteristiche
del muscolo infatti subiscono dei cambiamenti
al variare della condizione ischemica che è
a sua volta correlato allaumento della
PI che si verifica durante la contrazione muscolare
stessa, soprattutto a causa della diminuzione
del flusso sanguigno distrettuale e del conseguente
aumento di metaboliti (Merletti e coll., 1984).
Durante una contrazione muscolare di tipo massimale
si possono infatti raggiungere valori di PI
pari a 400-500 mmHg, mentre in contrazioni di
entità molto più modesta, compresa
tra il 5 ed il 10% della massima contrazione
volontaria, il valore di PI può essere
allincirca pari a 30 mmHg. In queste condizioni
la durata della contrazione può essere
mantenuta per lungo tempo, correndo tuttavia
il rischio di incorrere in una necrosi muscolare
(Sjøgard e Jensen., 1999). Tutta questa
serie di fenomeni, comporta una perturbazione
del ciclo eccitazione/contrazione ed una conseguente
alterazione del segnale elettrico di superficie,
nel quale è possibile notare delle alterazioni
a carico dellampiezza, della forma e della
velocità di propagazione del potenziale
di azione. Tutta questa serie di fenomeni è
nota con il temine di "manifestazioni mioelettriche
di fatica muscolare localizzata". Questo
genere di sperimentazioni vengono effettuate
durante una contrazione di tipo isometrico,
che anche se non può essere ovviamente
definita come un pattern di attivazione perfettamente
sovrapponibile al comportamento muscolare che
avviene durante una condizione naturale, offre
comunque un modello sperimentale di osservazione
molto standardizzabile e senzaltro meno
influenzabile da fattori esterni non correlati
al fenomeno di fatica indagato, come ad esempio
lartefatto costituito dal movimento del
muscolo rispetto agli elettrodi di superficie
che si verifica durante un movimento dinamico
(Rainoldi. e coll., 2000).
Le
variabili ed i parametri del segnale mioelettrico
Allo
scopo di caratterizzare e rendere disponibile
allo studio il segnale mioelettrico, registrato
attraverso lelettromiografia di superficie,
ossia tramite lapplicazione di elettrodi
sopra la superficie cutanea, vengono utilizzate
delle grandezze fisiche che sono classificabili
"nel dominio del tempo", dal momento
che per la propria determinazione richiedono
il solo tracciato temporale del segnale, e "nel
dominio della frequenza", per il fatto
che il loro calcolo necessiti lanalisi
spettrale del segnale e che quindi forniscano
informazioni sullo spettro del segnale stesso.
Le
variabili identificabili nel dominio del tempo,
forniscono quindi informazioni sullampiezza
del segnale, mentre quelle appartenenti al dominio
della frequenza permettono lo studio della scomposizione
in armoniche del segnale, ossia ci danno informazioni
riguardanti il contributo in termini di ampiezza
e di potenza fornito da ogni armonica ottenuta
attraverso lanalisi di Fourier del segnale
stesso.
Le
variabili identificabili nel dominio del tempo,
altrimenti chiamate "variabili dampiezza"
normalmente utilizzate nellambito dello
studio del segnale mioelettrico ricavato dallelettromiografia
di superficie sono:
- Il Valore
Rettificato Medio (Average Rectified Value,
ARV): che rappresenta larea sottesa
dal segnale elettromiografico nellintervallo
di tempo T divisa per T.
- Il Valore
Efficace (Root Mean Square), che è
una grandezza correlata alla potenza del
segnale.
Le
variabili nel dominio della frequenza maggiormente
utilizzate sono:
-La
frequenza media dello spettro di potenza (MNF)
, che rappresenta il valore baricentrale di
frequenza dello spettro di potenza.
-La
frequenza mediana dello spettro di potenza (MDF),
che rappresenta il valore di frequenza che divide
in due parti di eguale area lo spettro di potenza,
per cui il 50% del segnale sarà costituito
da armoniche inferiori a MDF ed il restante
50% del segnale sarà costituito da armoniche
superiori a MDF.
Una
ulteriore variabile che riveste una grande importanza
nello studio del segnale elettromiografico,
è la velocità di conduzione delle
fibre muscolari (CV). La CV è ricavata
grazie allutilizzo di due elettrodi posti
sulla superficie cutanea che permettono di calcolare
il rapporto e/t , intendendo con
e la distanza tra i due sistemi di elettrodi
e con t il ritardo tra il segnale registrato
dal secondo elettrodo e quello registrato dal
primo. Alcuni studi hanno dimostrato come la
stima della CV sia correlata con la percentuale
di fibre di tipo II ottenibile attraverso la
biopsia muscolare effettuata nel vasto mediale
di 7 marciatori e 12 sprinters (Merletti., 200).
Appare quindi chiaro linteresse che riveste
questo parametro nellambito di una possibile
tecnica non invasiva di determinazione della
tipologia delle fibre.
Il
cambiamento del segnale mioelettrico in condizioni
di affaticamento muscolare.
Nel
corso di una contrazione muscolare isometrica
sub-massimale protratta nel tempo, il segnale
mioelettrico, a causa dellinsorgenza del
fenomeno della fatica, presenta una diminuzione
della CV ed un progressivo depauperamento dei
contributi di alta frequenza. Lo spettro del
segnale si sposta verso sinistra e le armoniche
significative presentano valori progressivamente
inferiori (Merletti, 2000). La diminuzione del
valore di CV comporta inoltre una concomitante
diminuzione dei valori di MDF e MNF ed un aumento
dei valori di ARV ed RMS. Quindi lo spostamento
verso sinistra dello spettro del segnale e la
compressione delle sue variabili riflettono
il decremento del valore di CV (Lindsrtom e
Magnusson, 1977). Come dimostrato da alcuni
lavori sperimentali (Merletti e Roy, 1996),
lo studio dei cambiamenti dei parametri mioelettrici
di fatica correlati alla capacità di
mantenere una contrazione isometrica sub-massimale
protratta nel tempo, possono quindi fornire
importanti informazioni sulla tipologia delle
fibre muscolari considerate.
Figura 2
Spettro di potenza del segnale elettromiografico
registrato in tre distinti momenti (A, B, e
C) di una contrazione muscolare protratta nel
tempo. I vari spettri sono normalizzati rispetto
al massimo valore di picco. E interessante
notare la diversa scala di ampiezzi dei tre
spettri. (Da Merletti, 2000, modificato)
CONCLUSIONI
Per ciò che riguarda la fatica periferica,
alla luce di questi dati, non possiamo altro
che sottolineare ancora una volta e fortemente
leziologia multifattoriale legata al fenomeno
della sua insorgenza. Multifattorialità
quindi che esclude a priori lesistenza
di un unico modello ma che al contrario, sottolinea
lesistenza di numerosi fattori che si
situano in altrettanto diverse e numerose tappe
della catene fisiologica esecutiva della contrazione
muscolare. Per questa ragione anche se indubbiamente
la diminuzione della concentrazione di alcuni
"composti chiave" della bioenergetica
muscolare, come in particolare la PCr ed il
glicogeno, rivestono senza alcun dubbio un ruolo
chiave nel fenomeno, il ruolo della perturbazione
dellomeostasi cellulare nella sua totalità,
appare tanto determinante quanto estremamente
complesso. Potremmo comunque definire il fenomeno
della fatica periferica come un fenomeno "
a cascata" di tipo essenzialmente protettivo,
che la cellula mette in atto per preservare
la sua integrità, rispondendo allimperativo
di base di ogni organismo vivente che altro
non è che "lautoprogrammazione
per la sopravvivenza". Interrompere il
lavoro per non autodistruggersi, questa sembrerebbe
essere quindi la motivazione ultima del fenomeno.
Nuovi campi dindagine, apertisi negli
ultimi anni, sembrerebbero essere particolarmente
promettenti, come quelli rivolti allo studio
del ruolo dei radicali liberi, del monossido
di azoto, dellAMP, oppure del magnesio,
tuttavia una chiara ed inequivocabile gerarchizzazione
dei fenomeni che costituiscono questo complicato,
quanto perfetto meccanismo, che impedisce lautodistruzione
cellulare, sembrerebbe ancora lontana.
Per
quello che riguarda la fatica centrale invece,
se ad una parte tutta le sperimentazioni di
tipo elettrofisiologico svolte in questambito
tendono unanimemente a disegnare un suo schema
di tipo lineare, che parte dalla corteccia motrice
per arrivare alla cellula muscolare, dallaltra
lapproccio di tipo neurofisiologico lascia
trasparire un quadro di notevole complessità,
caratterizzato dallintegrazione di numerosi
neuromediatori, la cui funzione, se studiata
isolatamente, non permette di spiegare esaustivamente
e razionalmente il fenomeno.
In
ultimo il modello tridimensionale della fatica
ci permette di capire quanto i fattori centrali
siano fortemente integrati con quelli centrali
di ordine cognitivo e decisionale, sottolineando
una volta di più, la grande complessità
del problema.
Cerchiamo
quindi di capire come avviene quello che è
uno dei disastri naturali maggiormente temuti
in natura. Questo fenomeno viene ben descritto
dalla cosiddetta "teoria del granello di
sabbia" che ben illustra come il sistema
raggiunga un punto di "non ritorno"
che lo porta al suo collassamento, un po
come avviene nel nostro organismo quando , a
poco a poco, si fa strada il fenomeno della
fatica. Immaginiamo dunque un banalissimo mucchietto
di sabbia, come quello che fanno abitualmente
i bambini sulla spiaggia, che cosa succede se
aggiungiamo via via dallalto dei granelli
di sabbia? In un primo momento il nostro mucchietto
diventa di dimensioni sempre maggiori e questo
sembrerebbe tutto quello che in definitiva possa
avvenire. Ma osserviamolo più attentamente
da vicino: in effetti il pendio che si viene
a formare non è del tutto liscio, se
avessimo a nostra disposizione una forte lente
dingrandimento, potremmo facilmente notare
come lungo il suo decorso si formino numerose
irregolarità costituite da tante piccolissime
fossette ed altrettanto microscopici avvallamenti,
che si vengono a poco a poco a colmare con laggiunta
dei granelli di sabbia che cadono dallalto.
A furia di aggiungere sabbia, la pendenza del
nostro mucchietto, ormai divenuto di una certa
dimensione, è praticamente completamente
liscia, dal momento che tutte le irregolarità
si sono colmate (riquadro 3). A questo punto
abbiamo raggiunto il "punto critico",
se ora aggiungiamo ancora anche un solo granello
di sabbia, questultimo non troverebbe
nessuna fossa od avvallamento dove potersi fermare
e scivolerebbe inesorabilmente a valle (riquadro
4) , trascinando con se un numero più
o meno importante di altri granelli: ecco la
valanga. Dopo levento del fenomeno, ossia
dopo la discesa a valle della valanga, il cumulo
di sabbia, ma a questo punto potremmo dire anche
di neve, ritorna nuovamente irregolare come
allinizio ed un nuovo ciclo può
compiersi.
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