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  Prima Pagina
       
   
Argomento:
Fisiologia e biomeccanica
Data:
2002
Testata:
SdS. Anno XXI, 54: 28-41, 2002
 

La fatica: aspetti centrali e periferici
di Bisciotti GN. (1,2,3) ., Iodice PP (1), Massarelli R (1)

  1. Dipartimento "Entraînement et performance" , Facoltà di Scienze dello Sport, Università Claude Bernard, Lione (F).
  2. Scuola Universitaria Interfacoltà di Scienze Motorie, Torino (I)
  3. Consulente Scientifico Internazionale FC

Abstract:

Il fenomeno della fatica ha un’eziologia multifattoriale, non sempre facilmente identificabile e la cui interpretazione spesso comporta numerosi dubbi e non poche contraddizioni concettuali. Classicamente si tende a suddividere il fenomeno in fatica periferica e fatica centrale attribuendo alla prima cause prevalentemente metaboliche ed alla seconda invece motivazioni essenzialmente di tipo neurale. Tuttavia il quadro generale non è sempre così perfettamente distinguibile ed i vari fattori scatenati si sovrappongono molto spesso in maniera indistinguibile, rendendo la situazione di difficile lettura interpretativa. In questa breve review si cerca di fare un punto sullo stato attuale di conoscenza della problematica inerente l’insorgenza della fatica, sia periferica, che centrale, sottolineando i molti punti di dubbio ed i possibili futuri campi d’indagine.

INTRODUZIONE

Nel corso degli ultimi trent’anni il concetto di fatica si è piuttosto modificato ed in un certo senso "evoluto". Prima degli anni ’70 infatti, fisiologicamente la nozione di fatica era essenzialmente un sinonimo dell’esaurimento delle scorte energetiche, prevalentemente dell’ATP e dell’ accumulo di sostanze inibitrici nei confronti dei meccanismi di ripristino energetico (Westerblad e coll., 1991). Solamente a partire dagli anni ’80 si è cominciato ad interpretare il fenomeno come multifattoriale e reversibile, considerando anche, sia la sua diversa velocità, che i suoi differenti termini d’insorgenza. Più tardi, a cominciare dagli anni ’90, si è potuto assistere ad un crescente consolidamento dei concetti di plasticità muscolare, dei meccanismi di ottimizzazione della produzione di forza da parte del muscolo e della sua ricerca di "attivazione economica", nonché più recentemente all’apparizione del concetto di formazione di complessi sub-cellulari tra i sistemi biologici e gli elementi ultrastrutturali legato al concetto di formazione di micro-ambienti (Korge e Campbell, 1995).

Autori come Korge e Campbell, mettono in discussione il fatto che uno dei fattori scatenanti il fenomeno della fatica possa essere costituito dalla mancanza di ATP, dal momento che la deplezione di ATP viene efficacemente controbilanciata dalla sua rigenerazione attraverso un fenomeno di down-regulation anche nel muscolo affaticato. Potenzialmente questo fenomeno di down-regulation potrebbe essere svolto da alcuni prodotti della reazione ATPasica come dall’accumulo di Pi od H+. I due Autori sottolineano come esistano evidenze sperimentali che dimostrino che il legame della creatin-kinasi e degli enzimi glicolitici nella vicinanza dei siti d’idrolisi dell’ATP ed il loro accoppiamento funzionale con i meccanismi di rigenerazione dell’ATP, potrebbe creare un "micro-ambiente" che abbia un importante ruolo nella regolazione della funzione ATPasica. Un’importante funzione in questo fenomeno di rigenerazione dell’ATP può essere assunto dal valore ottimale di ratio locale ADP/ATP, che sembrerebbe particolarmente importante nel caso di un alto turnover dell’ATPasi. Sfortunatamente nel muscolo in vivo non è dato conoscere il massimo rateo locale di rigenerazione dell’ATP, in funzione della sua idrolisi, questa mancanza di conoscenza di dati precisi è principalmente dovuta al fatto che, nella determinazione in vitro questo valore viene di fatto sistematicamente sottostimato. Ed è proprio negli anni ’90 (Atlan e coll., 1991) che appare per la prima volta il temine anglosassone wisdom (che tradotto letteralmente significa saggezza) che descrive il sistema di protezione di tipo progressivo messo in atto dal muscolo contro il fenomeno della necrosi.

I due principali processi implicati nell’insorgenza del fenomeno della fatica, che sono costituiti dalla trasmissione del segnale nervoso e dalla catena energetica metabolica, sono fortemente interagenti e si sovrappongono costantemente, costituendo in tal modo, sia singolarmente, che sinergeticamente, la causa scatenante della fenomenologia. La bibliografia inerente la problematica fisiologica della fatica è vastissima (si possono trovare oltre 3.800 articoli scientifici sull’argomento) e costellata di numerose divergenze interpretative riconducibili essenzialmente a problemi di standardizzazione e riproducibilità tra i vari protocolli d’indagine. Soprattutto la trasposizione di dati ottenuti in vitro, rispetto alla situazione in vivo, è alquanto deludente. Occorre anche notare che, sia i criteri di ordine biomeccanico, che quelli di tipo prettamente biologico, inerenti il fenomeno della fatica, sono sovente mal definiti, dal momento che occorre ricordare che la fatica, e conseguentemente la sua modalità d’insorgenza, è "compito-specifica", ossia presenta una forte specificità nei confronti dell’attività che la ha indotta (Allen e coll., 1995; Fitts e Metzger, 1993; Fitts, 1996; Green, 1997; Mc Lester, 1997; Sejerstede e coll., 1998; Westerblad e coll., 1991). D’altro canto anche la classica forma iperbolica che descrive il rapporto tra tempo limite e la percentuale di forza massimale utilizzata nel corso dell’esercizio, ci sottolinea l’aspetto fortemente multifattoriale del fenomeno (Rohmer, 1968).

In questo lavoro prenderemo in esame i principali fattori che determinano l’insorgenza della fatica periferica e della fatica centrale per poterci meglio rendere conto della complessità del problema e del suo aspetto "multiparametrico", che rende impossibile poter imputare ad un solo fattore l’insorgenza del fenomeno.

LA FATICA PERIFERICA

Come già accennato il fenomeno della fatica è stato indagato tramite l’utilizzo di svariati protocolli di studio, il più delle volte difficilmente riproducibili e standardizzabili ed in ultima analisi scarsamente confrontabili. Le metodiche maggiormente utilizzate sono costituite da sperimentazioni su muscolo isolato oppure in vivo, sia sull’animale, che sull’uomo. Un grosso apporto metodologico è stato costituito, verso la fine degli anni ’70, dall’avvento della Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) grazie alla quale si è reso possibile lo studio non invasivo ed in tempo reale dei meccanismi energetici cellulari, come ad esempio la concentrazione muscolare di protoni. Grazie all’avvento di questa nuova tecnica si è potuto dare vita a tutta una serie di modelli che hanno tentato e tentano di descrivere, con la maggior precisione possibile, tutte le tappe che portano alla produzione di forza all’interno del muscolo in attività. Tuttavia, indipendentemente dalle tecniche di indagine utilizzate, il concetto di fatica varia in funzione dei diversi Autori. Alcuni infatti adottano come criterio valutativo delle variabili di tipo biomeccanico, come la tensione muscolare, altri invece preferiscono adottare dei parametri di ordine biologico come la concentrazione di alcuni composti, oppure l’attività di alcuni enzimi o di alcuni complessi molecolari. Da un punto di vista prettamente metodologico, i tre tipi di metodo di lavoro maggiormente utilizzati nei protocolli d’indagine della fatica muscolare sono costituiti dalla contrazione isometrica di tipo continuo, dalla contrazione isometrica di tipo discontinuo e dalla contrazione isotonica discontinua. Questa ultima modalità di lavoro può essere svolta eccentricamente, concentricamente, attraverso la modalità isocinetica oppure grazie ad una combinazione di queste differenti possibilità. La durata, la progressività e l’intensità delle esercitazioni proposte nei vari tipi di protocollo utilizzati sono le più svariate e costituiscono un ulteriore problema interpretativo.

I MECCANISMI ED I SITI IMPLICATI NELL’ISORGENZA DELLA FATICA IL RUOLO DELLE POMPE Na+/K+ ATPase E Ca++ ATPase

Come è noto il segnale chimico prodotto grazie all’acetilcolina, si traduce a livello del sarcolemma nuovamente in segnale elettrico. Se infatti una quantità sufficientemente elevata di questo neurotrasmettitore si lega ad i recettori post-sinaptici, aumenta la permeabilità del sarcolemma stesso nei confronti del sodio, da qui risulta una depolarizzazione della membrana e la propagazione di un potenziale di azione che si propaga lungo il sarcolemma. Questo potenziale viene in seguito trasmesso ai tubuli traversi (sistema T) verso l’interno della cellula. In questa sequenza di eventi sono implicate, sia la pompa Na+/K+ ATPase, al livello del sarcolemma, che la pompa Ca++ ATPase, a livello del reticolo sarcoplasmatico. Le due pompe regolano i gradienti ionici trans-membranari che sono necessari al fenomeno eccitatorio ed all’attivazione dell’accoppiamento acto-miosinico. La pompa Ca++ ATPase presenta una forte specificità in rapporto ad i vari tipi di fibra e ne condiziona la velocità di contrazione, al contrario la pompa Na+/K+ ATPase presenta poche differenze in rapporto alla tipologia delle fibre muscolari. Numerose sperimentazione, effettuate su muscolo in vivo, dimostrano come il bloccaggio di queste due pompe, causi un abbassamento della capacità di contrazione (Nielsen e Harrison, 1998). Alla fine di un esercizio condotto ad esaurimento il ritorno ad uno stato di omeostasi della pompa Na+/K+ ATPase, si presenta più rapido di quello relativo alla pompa Ca++ ATPase (Green, 1998), tuttavia l’alterazione della funzionalità della pompa Na+/K+ ATPase, che si verifica in condizioni di fatica, altera significativamente il gradiente membranario del potassio (McLester, 1997). Durante gli esercizi prolungati, soprattutto svolti ad una certa intensità, si verifica un’importante fuoruscita di potassio, tale da essere notabile anche a livello della differenza artero-venosa del catione stesso. La riduzione del potenziale di azione che ne consegue, che è dell’ordine di circa il 50%, potrebbe essere sufficiente per modificare la funzionalità dei tubuli traversi ed impedire la liberazione di Ca++ dal reticolo sarcoplasmatico, situazione che porterebbe ad una diminuzione della capacità di produzione della forza da parte del muscolo (Nielsen e Overgaard, 1996; Rios e coll., 1991; Rios e Pizzarro, 1988). La capacità di resistenza contrattile, sembrerebbe quindi dipendere dall’efficienza della pompa Na+/K+, anche se per alcuni Autori (Sjogaard, 1996), il ruolo del potassio nell’insorgenza della fatica dipenderebbe dalla natura della sperimentazione (in vivo oppure in vitro) e dall’intensità del lavoro imposto. In vivo ed a bassa intensità di lavoro infatti il ruolo del potassio, nel fenomeno d’insorgenza della, fatica sarebbe alquanto limitato, e l’apparizione quest’ultima dipenderebbe essenzialmente ad una disfunzionalità del sistema T (Sjogaard, 1996). Al contrario nel caso in cui siano presenti un’alta frequenza ed un importante intensità di contrazione, si verifica una significativa elevazione del gradiente extracelluare di potassio che si accompagna, sia ad una diminuzione del potenziale di membrana, che del potenziale di azione e di velocità di propagazione dell’onda elettrica (Sjogaard, 1996).

Questo aumento del gradiente extracellulare di potassio, influenzerebbe a sua volta il fenomeno di retrocontrollo del debito sanguigno muscolare locale, la cui conseguenza potrebbe essere la stimolazione di chemiorecettori arteriosi che indurrebbero un aumento della pressione arteriosa (Paterson, 1996). Il ruolo del potassio nell’insorgenza della fatica verrebbe ulteriormente confermato dal fatto in numerose sperimentazioni, nelle quali veniva aggiunto potassio nell’ambiente cellulare, si verificava inequivocabilmente una diminuzione della produzione di forza, anche in un muscolo inizialmente non affaticato (Sjogaard, 1996). Nelle sperimentazioni in vitro, al contrario, non è possibile attribuire al potassio un ruolo particolarmente importante nell’insorgenza della fatica, a causa della sua diluizione immediata nell’ambiente cellulare. Nelle esperienze in vitro, è piuttosto il calcio che si presenta sempre ben correlato alla produzione di forza.

Tuttavia occorre riportare come in bibliografia sia possibile ritrovare protocolli sperimentali nei quali l’affaticamento sia sopravvenuto senza che peraltro si potessero registrare significativi incrementi del potassio extra-cellulare (Sjogaard, 1996), in alcune di queste situazioni infatti il potenziale membranario e l’ampiezza del potenziale d’azione rimanevano sostanzialmente stabili, anche in presenza del fenomeno di affaticamento, e l’aumento del gradiente extra-cellulare di potassio poteva addirittura influenzare positivamente la produzione di forza. Questi dati ci fanno quindi chiaramente intuire come il potassio non sia l’unico elemento responsabile della fatica muscolare e come comunque non agisca sempre in modo diretto.

Altri fenomeni che potrebbero essere collegati all’insorgenza della fatica, riscontrabili nelle sperimentazioni in vivo, possono essere costituiti dall’apparizione di sostanze antagoniste dell’acetilcolina a livello della giunzione neuro-muscolare oppure dall’accumulo di protoni.

IL CALCIO INTRACELLULARE E L’ACCOPPIAMENTO ECCITAZIONE-CONTRAZIONE

All’interno della cellula l’insorgenza della fatica sembra legata ad una fenomenologia piuttosto complessa concernente sostanzialmente delle variazioni, sia nella distribuzione e nei legami, oltre che nella concentrazione e nei movimenti del calcio (Williams e coll., 1995). Alcuni lavori (Westerblad e coll., 1990) in effetti mostrano come dopo un periodo di contrazione tetanica ad alta frequenza compreso tra i 5 ed i 10 secondi, la concentrazione di Ca++ risultasse minore al centro della fibra in rapporto a quanto non fosse al bordo della fibra stessa , questo dato indicherebbe un deficit di liberazione, al centro della fibra, probabilmente dovuto ad un difetto del potenziale di azione del sistema T. Occorre a questo proposito considerare che, dal momento che il sistema T non è solamente devoluto a veicolare il potenziale d’azione ma anche ad indurre una sorta di retroregolazione nei confronti dell’accumulo degli ioni calcio, un loro cospicuo aumento potrebbe elevare la soglia di propagazione del potenziale d’azione del sistema T stesso (McLester, 1997). Nonostante tutto, comunque il ruolo del sistema T e del reticolo sarcoplasmatico nell’insorgenza della fatica periferica, non è ancora del tutto chiaro, anche se alcuni Autori (Chin e Allen, 1998; Linde e coll, 1998.) concordano nell’associare la fatica con almeno tre meccanismi legati al calcio di cui i primi due sono costituiti da una diminuzione, sia della sua liberazione, che del suo ripompaggio da parte del reticolo sarcoplasmatico ed il terzo è rappresentato da un abbassamento della sensibilità delle miofibrille sempre nei confronti del Ca++ stesso. Anche il pH locale, come vedremo in seguito, potrebbe giocare un qualche ruolo attivo in questo tipo di meccanismo. In definitiva dunque tutte queste modificazioni riguardanti la concentrazione del Ca++ intracellulare, costituiscono una forte causa di perturbazione del meccanismo di accoppiamento eccitazione-contrazione, anche se occorre sottolineare che la diversa tipologia delle fibre è differentemente influenzata da questa catena di eventi. Le fibre ossidative infatti vengono meno perturbate dalle variazioni della concentrazione di Ca++ intracellulare, durante il loro ciclo di accoppiamento eccitazione-contrazione, rispetto alle fibre glicolitiche (Stephenson e coll., 1998), questo diverso comportamento potrebbe spiegare, almeno in parte, la loro maggior resistenza alla fatica.

IL RUOLO DELL’ ACIDOSI

Il metabolismo dell’ATP è strettamente legato a quello dei protoni ed all’equilibrio acido-basico del sarcoplasma (Sahlin, 1994; Linderman e Gosselink, 1994). In effetti la quasi totalità delle reazioni ossidative concernenti L’ATP, comprese la sua idrolisi e la sua reintegrazione, vedono una liberazione ed un’assunzione di protoni da parte dell’ambiente. L’idrolisi di una molecola di ATP libera un protone, la glicolisi anaerobica citoplasmatica forma 2 molecole di ATP per ogni molecola di glucosio utilizzata con la conseguente liberazione di due protoni, come d’altro canto la glicogenolisi nella quale vengono prodotte 3 moli di ATP per ogni mole di glicogeno e comunque vengono rilasciati nell’ambiente cellulare 2 protoni. Il meccanismo anaerobico alattacido, al contrario ha un bilancio protonico nullo, essendo la scissione della fosfocreatina un meccanismo blandamente alcalinizzante (Wooledge, 1998). A riposo, o nel corso dell’esercizio svolto a bassa intensità, il sistema è leggermente sbilanciato verso un modico accumulo di protoni, dal momento che in simili condizioni, la loro produzione risulta maggiore, seppur leggermente, del loro recupero, che si attua attraverso le vie di resintesi dell’ATP. Il sarcoplasma riesce comunque a mantenere nel corso del lavoro poco intenso, un pH relativamente stabile grazie, sia all’intervento di numerosi sistemi tampone, che alla fuoruscita dalla cellula di protoni e di gas carbonico. Questi sistemi sono particolarmente efficaci, basti pensare che in totale assenza di tamponi cellulari, il pH cellulare scenderebbe a 1.5 (Rouillon e Candau, 2000). Alcuni di questi processi, come ad esempio il meccanismo di trasporto dei bicarbonati, sono stati scoperti solamente di recente, tanto è vero che nel 1994 Linderman e Gosselink sostenevano ancora l’impermeabilità del sarcolemma nei confronti del bicarbonato. E’ facilmente comprensibile dunque come, nonostante il loro indubbio interesse nei confronti del fenomeno della fatica, questi aspetti siano ancora molto inesplorati e poco conosciuti. Possiamo comunque dire che il potere tampone del muscolo scheletrico risulta maggiore di quanto non sia quello plasmatico ma minore di quello eritrocitario e che i principali sistemi tampone sono costituiti dal sistema bicarbonato/acido carbonico, dal sistema proteina/proteinato e dal sistema fosfato monoprotonico/fosfato diprotonico. Dal momento che negli esercizi di alta intensità la cui durata vada oltre qualche secondo, la risentesi dell’ATP avviene essenzialmente tramite il meccanismo anaerobico lattacido, la concentrazione di protoni nell’ambiente cresce rapidamente, superando ben presto le possibilità di controllo del sistema tampone , il risultato è un rapido abbassamento del pH sarcoplasmatico (Mannion e coll., 1995). La perfusione degli ioni H+ dalla fibra muscolare al torrente circolatorio, avviene con una velocità di circa 30 volte maggiore rispetto a quanto non sia per lo ione lattato (La-), questo grazie alla loro minor dimensione (Shepard, 1986). Circa un terzo degli H+ non sarebbe comunque associato agli La-, questo starebbe ad indicare l’importante ruolo giocato in questo senso dal sistema di scambio sodio/protoni e dai sistemi bicarbonato-dipendenti (Bangsbo e coll., 1990). Il ruolo dell’abbassamento del pH nell’insorgenza del fenomeno della fatica è un argomento molto indagato e per alcuni aspetti controverso (Allen e coll., 1995; Chin e Allen, 1998; Fitts e Metzger, 1993; McLester, 1997; Westerblad e coll., 1991) e l’elenco delle conseguenze fisiologiche che i vari Autori attribuiscono all’acidosi è molto lungo: diminuzione dell’attività della pompa sodio/potassio con conseguente apertura dei canali potassici, diminuzione della fissazione del calcio sulla troponina, dato il suo antagonismo con gli H+, diminuzione nella formazione del numero di ponti acto-miosinici, diminuzione della velocità di accorciamento, diminuzione dell’energia cellulare dovuta ad un abbassamento dell’attività enzimatica principalmente della fosfofruttochinasi, diminuzione della miosina ATPasi (che vede il suo pH ideale situato a 7.2), diminuzione sia dell’uscita di calcio, che di protoni dalla cellula, aumento della rigidità delle proteine. Tutto questo quadro viene ulteriormente aggravato in condizioni d’ipertermia. Numerosi studi confermano il ruolo effettivo sostenuto dall’acidosi muscolare nell’insorgenza della fatica nel corso di esercizi svolti ad alta intensità e di media durata (Linderman e Gosselink, 1994). D’altro canto una controprova indiretta dell’importanza dell’abbassamento del pH muscolare nel fenomeno della fatica, è costituito dall’aumento della massa muscolare stessa, e quindi del potere tampone del muscolo, in seguito ad alcuni tipi di allenamento (Juel, 1998). Tuttavia sono molte le perplessità espresse in merito all’abbassamento del pH come maggiore responsabile della situazione di affaticamento periferico. Quelle che potremmo definire come "divergenze interpretative", vanno dalla messa in discussione dei metodi d’indagine utilizzati, come ad esempio il fatto che nella fibra isolata i protoni escano più velocemente di quanto non facciano nella fibra in vivo, sino alla critica di alcuni aspetti maggiormente specifici. Secondo alcuni Autori il lattato non sarebbe né il solo, né tanto meno il principale fornitore di protoni nel corso dell’esercizio muscolare. Secondo i dati riportati da Sahlin (1992) il pH riscontrato su di un prelievo bioptico muscolare in condizioni di riposo e di fatica, passa da un valore di 7.1 a quello di 6.6, in queste condizioni la concentrazione di lattato aumenta, passando da 1 a 30 mmol . l-1 di acqua intracellulare. Contemporaneamente la degradazione di PCr e di ATP prima in ADP e susseguentemente in AMP provoca la liberazione di grandi quantità di acido fosforico (H3PO4) che vede aumentare la sua concentrazione da 17 a 49 mmol l-1 di acqua intracellulare. Sapendo che il pH rappresenta il logaritmo decimale su base negativa (ossia dell’inverso) della concentrazione di protoni, possiamo calcolare, sia la concentrazione di protoni prima dell’esercizio (79 nmol l-1 : 1 nmol = 10-6 mmol), che quella riscontrabile dopo l’esercizio stesso (251 nmol l-1): In quest’aumento di concentrazione di protoni post-esercizio, che è quindi di 172 nmol l-1, il contributo della degradazione dei composti fosforici ad alta energia (PCr, ATD, ADP) sarebbe di 1.5 volte maggiore rispetto a quello del lattato (Sahlin, 1992).

Sempre Sahlin (1992) ed altri Autori (Hirvonen e coll., 1987; 1992), farebbero osservare come durante un esercizio di breve durata svolto ad alta intensità, la degradazione di PCr e l’accumulo di lattato siano tra loro in un rapporto molto vicino, se non eguale, ad 1:1. In altre parole questi Autori sottolineano il fatto che quando la concentrazione di lattato aumenta di 1 mmol l-1, quella di PCr diminuisce di altrettanto. Come è noto La formazione di una mole di creatina, proveniente dalla degradazione di una mole di PCr, permette l’eliminazione di una mole di protone e di una mole di lattato, in tal modo la degradazione della PCr tamponerebbe la gran parte dei protoni forniti dalla glicolisi anaerobica. Se è indubbio che la contrazione muscolare, effettuata al di là di una certa intensità, provochi un abbassamento del pH, che è a sua volta responsabile dell’inibizione della PFK (fosfosfofruttochinasi), l’enzima chiave della glicolisi lattacida , è altrettanto vero che il fenomeno che interagisce tra questi due fattori, acidificazione dell’ambiente ed inibizione della PFK, non è sempre perfettamente chiaro. L’attività ottimale dell’enzima PFK si trova ad un pH di 7.03, ossia molto vicino al pH che presenta il muscolo a riposo, la caduta del pH sino a valori di 6.63, livelli d’altro canto facilmente raggiungibili nel corso di un’esercitazione intensa, vede in effetti abbassarsi praticamente a zero l’azione dell’enzima chiave del meccanismo glicolitico. Tuttavia anche in simili condizioni, un certo numero di composti, che sono presenti a livello muscolare, sono in grado di rimuovere l’azione inibitrice svolta dai protoni sulla PFK stessa. Ad esempio ad un pH pari a 6.63, l’aggiunta di fosfato inorganico, sino al raggiungimento del livello di 20 mmol . l-1,riporta l’attività enzimatica della PFK a circa il 40% delle sue capacità (assumendo come 100% dell’attività della PFK quella registrabile a pH 7.3). Anche l’aggiunta di ADP, in ragione di 0.5 mmol l l- riporta l’attività enzimatica della fosfofruttochinasi al 55% delle sue piene potenzialità, mentre queste ultime rimontano sino a ben il 70% dopo l’aggiunta di una pur scarsa quantità di fruttosio 1,6 bifosfato, composto quest’ ultimo, che sappiamo essere ben presente nel muscolo in attività, nel quale svolge peraltro degli importanti ruoli di regolazione (Perronet, 1994). Questi dati potrebbero quindi inficiare la teoria secondo la quale l’accumulo di lattato, ed il conseguente abbassamento del pH, inibirebbero l’attività della PFK, o per meglio dire, sottolineerebbero il fatto che tale fenomeno sia perfettamente osservabile in sperimentazioni effettuate su muscolo isolato ma non altrettanto evidente sul muscolo in vivo, nel quale il livello di ATP e di fruttosio 6 fosfato ( da cui per fosforilazione da parte dell’ATP deriva il fruttosio 1,6 bifosfato) sono molto più elevate.

Anche il ruolo dell’abbassamento del pH sull’apparato contrattile potrebbe essere comunque messo in discussione. E’ conoscenza comune l’antagonismo esistente tra i protoni e gli ioni calcio sui siti di legame della troponina. Questo sarebbe in effetti un meccanismo di difesa del muscolo che inibendo appunto il meccanismo di contrazione in presenza di un pH eccessivamente basso, previene i possibili danni che potrebbero conseguire al perdurare della contrazione muscolare in un ambiente estremamente acido. Tuttavia se si osserva l’andamento durante la fase successiva ad un esercizio muscolare intenso del ripristino del pH e delle capacità contrattili del muscolo, possiamo quantomeno mettere in dubbio le affermazioni precedenti. Dopo una contrazione di tipo isometrico, mantenuta sino a quando la forza espressa non cada al 50% della forza massimale volontaria, si registra in effetti un pH molto basso (6.1-6.6), durante la fase di recupero il pH ritorna verso valori normali solamente in tempi molto lunghi dell’ordine di circa 10 minuti, inoltre durante i primi 2’ circa della fase di recupero il pH continua ad abbassarsi, nonostante l’interruzione del lavoro fisico, questa ulteriore acidificazione dell’ambiente muscolare è dovuta alla liberazione di protoni che avviene durante la resintesi della creatina in PCr. Nonostante il fatto che il ritorno del livello del pH verso i valori di riposo sia un processo relativamente lento, dell’ordine come abbiamo detto di una decina di minuti, il muscolo riesce a ristabilire le sue capacità contrattili in un arco di tempo molto più breve. Infatti dopo il mantenimento di una contrazione isometrica che prosegua sino a che la forza generata non cada a valori pari al 50% della massima forza isometrica, il muscolo recupera completamente, ritornando quindi in grado di generare nuovamente la stessa forza, dopo un periodo di riposo compreso tra i 2 ed i 3 minuti (Sahlin e Ren, 1989). Nella corso dello stesso studio i due Autori notarono come dopo 2 minuti di recupero la diminuzione del livello degli H+ dovuta alla metabolizzazione del lattato, fosse completamente controbilanciato dal rilascio di altri H+ dovuti alla resintesi della PCr. Il fatto quindi che il muscolo possa ritrovare le sue piene capacità contrattili anche in mancanza di un innalzamento del pH, getta numerosi dubbi sull’assunto secondo il quale l’abbassamento del pH, dovuto all’accumulo di lattato, sia il responsabile dell’inibizione contrattile del muscolo e quindi il responsabile dell’insorgenza del fenomeno della fatica periferica. Per cui, anche se in effetti la fatica muscolare appare in presenza di un abbassamento del pH, le evidenze sperimentali, in tutto rigore, escluderebbero un rapporto di linearità tra pH e forza e/o pH e fatica e non permetterebbero di andare al di là di una relazione di coincidenza tra i due fenomeni in causa (Chin e Allen, 1998). D’altro canto in bibliografia esistono numerosi esempi di sperimentazioni che riferiscono l’insorgenza del fenomeno della fatica anche senza il verificarsi di acidosi muscolare (per una review vedi Allen e coll., 1995) Alcuni Autori infine proporrebbero di considerare la fase del recupero in due periodi distinti, il primo dei quali considerabile come "periodo di recupero rapido", sarebbe caratterizzato da un veloce ritorno verso lo stato basale del meccanismo di accoppiamento eccitazione/contrazione e di regolazione del calcio e risulterebbe pH-indipendente, ed un secondo, più lento, che sarebbe, almeno in parte, legato al ritorno verso i valori basali, sia dei protoni, che dei fosfati (Fitts e Metzger, 1993). Tuttavia occorre comunque ricordare che alcuni studi recenti svolti su modello animale, nei quali una perfusione di La (con concomitante mantenimento del pH a valori basali) faceva registrare una diminuzione della forza contrattile ( Hogan e coll, 1995), potrebbero riaprire il dibattito sul ruolo del lattato nell’insorgenza della fatica. Per giustificare questi risultati gli Autori avanzavano l’ipotesi dell’aumento della forza ionica che sarebbe la responsabile di un’alterazione nella formazione dei ponti acto-miosinici. In questo senso va anche un'altra sperimentazione, sempre effettuata su modello animale, nella quale gli Autori concludono che l’aumento di La possa avere un effetto negativo sulla capacità di produzione di forza da parte del muscolo, probabilmente a causa di un meccanismo d’inibizione nei confronti del rilascio di Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico (Stephenson e coll., 1998).

Il ruolo dei fosfati inorganici nella forma mono e diprotonica

I fosfati inorganici (Pi) sono dei metaboliti derivanti dall’idrolisi dell’ATP e della PCr e la loro concentrazione tende ad aumentare nell’ambiente indipendentemente dalla durata dell’esercizio svolto. In bibliografia si possono ritrovare numerosi lavori che tendono ad evidenziare il ruolo svolto da queste sostanze nella diminuzione della prestazione fisica legata all’insorgenza della fatica, oppure all’ischemia od all’ipossia. L’aggiunta di poche millimoli di Pi nell’ambiente muscolare induce una diminuzione della capacità contrattile, con una conseguente diminuzione della produzione di forza ed un cambiamento , sia del ciclo oscillante, che dell’attività ATPasica. Vale la pena soffermarci a questo punto sul meccanismo del " ciclo oscillante": quando le fibre muscolari oscillano a 5-15 Hz per circa il 2% della loro lunghezza di riposo, sono in grado di produrre un’importante potenza meccanica idrolizzando praticamente il doppio quantitativo di ATP, per unità media di tensione, rispetto alla condizione statica. L’attività ATPasica risulta correlata linearmente alla tensione media prodotta durante l’oscillazione. L’aggiunta di Pi o di solfato riduce, sia il costo della tensione, che la frequenza ottimale di oscillazione di lavoro perturbando in tal modo il sistema (Pybus e Tregear 1975). I Pi sono presenti a livello organico in due forme: la prima monoprotonica e la seconda diprotonica la cui proporzione di presenza dipende dalla concentrazione dei protoni presente nell’ambiente. Nel momento in cui il pH cellulare si abbassa, pressoché la totalità del Pi presente passa alla forma diprotonica. Questo passaggio del Pi dalla forma monoprotonica a quella diprotonica è correlato alla diminuzione della forza contrattile, mentre questa correlazione non si registra con la forma monoprotonica. Questi effetti variano in rapporto alla tipologia delle fibre con ogni probabilità in ragione della diversa sensibilità che le fibre medesime presentano per ciò che riguarda la loro attività ATPasica nei confronti del Pi. Nel caso di esercizi di breve durata svolti ad alta intensità, il verificarsi di un rapido ed importante accumulo di Pi, dovuto al massiccio intervento del meccanismo anaerobico alattacido, costituisce uno dei più importanti fattori responsabili dell’insorgenza della fatica muscolare, assumendo in questo caso una valenza ancor maggiore di quella rivestita dai meccanismi di perturbazione ionica. Questo sarebbe tuttavia in contraddizione con quanto riportato da alcuni studi (Greenhaff, 1995; Mujika e Padilla, 1997) che riferiscono come una supplementazione di creatina possa, aumentando le scorte di fosfocreatina, ritardare l’apparizione del fenomeno della fatica. In effetti una supplementazione di creatina, generando attraverso il fenomeno dell’idrolisi Pi, dovrebbe al contrario essere un fattore inducente la fatica (Sahlin e coll., 1998.). Anche durante le esercitazioni di lunga durata svolte a bassa intensità, il sistema dei fosfageni, che in questo caso si trova accoppiato ad un forte fenomeno di idrolisi dell’ATP, può comunque indurre un fenomeno di elevazione della concentrazione di Pi tale da comportare il passaggio dei ponti actomiosinici dal loro livello di alta produzione di forza a quello basso, fenomeno che potrebbe essere alla base della teoria del sistema oscillante proposto da Mc Lester (1997). L’allenamento potrebbe giocare un ruolo sostanziale nell’incidenza dei fenomeni sopra descritti, inducendo una progressiva tolleranza a concentrazioni di Pi sempre maggiormente elevate (Mc Lester, 1997).

Il ruolo dell’adenosindifosfato

Recentemente alcuni ricercatori hanno rivolto la loro attenzione al possibile ruolo svolto dall’adenosindifosfato (ADP) nell’instaurarsi del fenomeno della fatica periferica, prendendo in considerazione anche il rapporto ADP/ATP (Allen e coll., 1995; Mc Lester, 1997; Sahlin, 1998). Questo composto, come sottolineato nel modello energetico proposto da Mc Lester (1997), svolgerebbe un ruolo di primo piano nel meccanismo di transizione dallo stato di bassa a quello di alta energia ed è inoltre considerabile a tutti gli effetti come il principale responsabile del distacco dei ponti acto-miosinici. Nel momento in cui la sua concentrazione subisce un sostanziale aumento, l’ADP ostacola l’ ATP nel meccanismo di distacco dei ponti actomiosinici, diminuendo in tal modo la forza prodotta dal sistema oscillante. Questo effetto d’inibizione sul distacco dei ponti verrebbe ulteriormente enfatizzato in presenza di basse concentrazioni di ATP.

Il ruolo dellA componente lenta del VO2 nel caso particolare della corsa.

Durante uno sforzo ciclico effettuato ad un carico costante d’intensità inferiore a quella della prima soglia ventilatoria, soprattutto se svolto in posizione eretta come nel caso della corsa, è possibile notare un primo repentino incremento del VO2, essenzialmente ascrivibile al veloce aumento del flusso ematico polmonare, che caratterizza la prima fase denominata "cardioritmica", alla quale fa seguito una seconda fase, caratterizzata da un aumento meno ripido del VO2, legata all’arrivo del flusso ematico proveniente dai distretti muscolari attivi. Questa seconda fase porta a sua volta, in circa 3’, al raggiungimento della terza fase, detta di stady-state, in cui il consumo di O2 si stabilizza.

Nello svolgimento di un lavoro effettuato ad un’intensità maggiore rispetto alla prima soglia ventilatoria, la cinetica del VO2 cambia sostanzialmente. In questo caso infatti alla seconda od alla terza fase, si sovrappone una nuova componente caratterizzata da una cinetica più lenta che, appunto per questa sua caratteristica, prende il nome di "componente lenta del VO2". La componente lenta del VO2 (cl VO2) rappresenterebbe quindi un "eccedenza" di VO2 che, sino a determinati carichi, consente il raggiungimento di uno steady-state ritardato. Nel caso invece in cui i carichi di lavoro siano particolarmente intensi, non diviene più possibile il raggiungimento di uno stato di steady-state ed in tal caso la cl VO2 concorrerebbe al raggiungimento del massimo valore di VO2, valore peraltro superiore a quello prevedibile dalla relazione VO2/carico sotto soglia (W) e quindi al rapido raggiungimento dell’esaurimento da fatica. La cl VO2 comporterebbe un aumento del costo VO2/W, che passerebbe dai circa 10 ml /W registrabili sotto-soglia, ai circa 12-13 ml/W osservabili durante il lavoro sopra-soglia (Maione e coll., 20001), evidenziando in tal modo una perdita di efficienza muscolare. La cl VO2 viene pressoché unanimemente spiegata dai diversi Autori, attraverso fenomeni prevalentemente muscolari legati al progressivo reclutamento, durante l’attività svolta ad alta intensità, di fibre di tipo II, il cui rendimento è minore rispetto a quelle di tipo I. La cl VO2 quindi farebbe parte integrante del fenomeno della fatica e sarebbe une delle principali cause, in attività come la corsa, della progressiva riduzione dell’efficienza muscolare (Whipp e Wassermann, 1970; Jacobsen e coll., 1998).

Figura 1 : la componente lenta del VO2.

LA FATICA CENTRALE

Con il termine di fatica nervosa o centrale si intende tutto quel complesso di fattori che determinano la diminuzione della contrattilità muscolare indipendentemente dai fattori intramuscolari e/o metabolici. L’implicazione di fenomeni centrali nell’insorgenza della fatica è dimostrata da alcune sperimentazioni (Bigland-Ritchie e coll., 1979) che dimostrano come la stimolazione elettrica di un complesso muscolare affaticato, permetta di recuperare una certa percentuale del livello iniziale di forza. In questo tipo di sperimentazioni alcuni soggetti furono sottoposti ad un lavoro di tipo intermittente a carico del soleo, sino a che non fosse raggiunto un livello di affaticamento tale da diminuire la forza del distretto muscolare sino al 50% della massima capacità contrattile. Raggiunta una simile situazione, gli Autori riferiscono di come l’imposizione di una stimolazione elettrica permetta di ritrovare un livello di forza pari all’80% del livello massimale, attribuendo in tal modo la differenza tra i due valori alla fatica di tipo centrale. Occorre tuttavia notare che il parziale recupero dei livelli iniziali di forza indotto dall’elettrostimolazione, risulterebbe essere dipendente, sia dal gruppo muscolare considerato, che dal tipo di esercitazione che ha causato la condizione di affaticamento, senza dimenticare lo stato motivazionale del soggetto (Guézennec, 2000). In ogni caso questi dati sottolineerebbero come, in stato di affaticamento, il Sistema Nervoso Centrale (SNC) sia incapace di generare uno stimolo adeguato (Bigland-Ritchie e coll., 1979; Enoka e Stuard, 1992). Oltre a questo effetto sulla fatica acuta, altri Autori hanno dimostrato come l’elettrostimolazione sia in grado di permettere un parziale recupero dei livelli di forza persi in seguito ad un fenomeno di fatica cronica come quello costituito dal sovrallenamento (Bayley e coll., 1993). Tuttavia questo tipo di sperimentazioni basate sulla contrazione elettroindotta, non riesce a dimostrare appieno il ruolo che il comando nervoso, proveniente dal SNC, ricopre nell’insorgenza della fatica, l’elettrostimolazione infatti può indurre anche un potenziamento del comando nervoso periferico, provocando in tal modo un aumento in toto del comando nervoso che arriva a livello muscolare. Per questo motivo quindi la stimolazione elettrica non può essere considerata come una tecnica specificatamente rivolta all’indagine del fenomeno della fatica indotta da un deficit di funzionamento del SNC. Non mancano comunque esempi in letteratura che, proprio per dimostrare senza possibilità possibili dubbi il ruolo del SNC nell’insorgenza del fenomeno della fatica, hanno utilizzato come tecnica di studio la stimolazione diretta della corteccia motoria. In quest’ambito uno studio condotto da Maton sui primati (1991), utilizzando una tecnica di registrazione dell’attività elettrica cerebrale dei neuroni della corteccia motoria primaria, tramite un impianto elettrodico intracranico, dimostrò come la contrazione esaustiva del bicipite brachiale comportasse una diminuzione dell’attività elettrica dei neuroni considerati. Il ruolo ricoperto dalla corteccia motoria primaria nell’insorgenza della fatica, è stato confermato in seguito anche nell’uomo grazie all’utilizzo di una tecnica non invasiva, costituita dalla stimolazione della corteccia primaria tramite dei campi magnetici intensi (Gandevia e coll., 1996). Attraverso questo studio gli Autori hanno potuto dimostrare come la superimposizione di una corrente magnetica transcranica permetta di diminuire parzialmente gli effetti che la fatica provoca sulle possibilità di mantenimento della forza contrattile. Tuttavia occorre notare che una parte degli effetti della fatica non può comunque essere spiegata attraverso l’utilizzo di queste tecniche. In ogni caso tutte le sperimentazioni che si basano sulla stimolazione, effettuata a diversi livelli del tratto nervoso, permettono di formulare la verosimile ipotesi dell’esistenza di una fatica di ordine centrale, evidenziabile attraverso una diminuzione del comando nervoso preposto alla contrazione muscolare, anche se il ruolo dei fattori di ordine metabolico periferico giocano un ruolo predominante per ciò che riguarda la diminuzione delle capacità contrattili muscolari. Inoltre alcuni aspetti della fatica di ordine centrale restano ancora da chiarire completamente, come ad esempio il fatto che il fenomeno sia riconducibile ad un meccanismo inibitorio che si presenterebbe a livello di alcuni gruppi di neuroni, oppure sia piuttosto costituito da un fenomeno inibitorio più generalizzato, causato dai dei meccanismi che agiscono a livello globale sull’insieme delle funzioni nervose. La risposta a questo tipo di domanda non è ancora del tutto chiara, anche se le attuali teorie neurochimiche della fatica sembrerebbero propendere maggiormente per la seconda ipotesi (Guezennec, 2000).

GLI ASPETTI NEUROCHIMICI DELLA FATICA CENTRALE

L’evidenza del ruolo della fatica centrale, comprovato attraverso le varie sperimentazioni di tipo elettrofisiologico, ha spinto numerosi Autori a formulare differenti ipotesi sul ruolo svolto dai neuromediatori centrali nel corso dell’esercizio esaustivo (per una review vedi Meeusen e coll., 1995). Tutti gli studi rivolti a questo particolare aspetto del fenomeno, dimostrano ampiamente coma la fatica induca, sia nell’uomo, che nell’animale, un cambiamento del modello comportamentale (Dishman, 1997). Nell’ animale si può sostanzialmente notare una diminuzione delle attitudini comportamentali rivolte alla vita di relazione, mentre nell’uomo le risposte sono maggiormente complesse e sembrano dipendere dal tipo di attività responsabile del fenomeno di affaticamento. Possiamo tuttavia in linea generale osservare nel modello umano, come conseguenza ad un esercizio di tipo esaustivo, una diminuzione delle capacità decisionali, sia per quello che riguarda la capacità di presa d’informazione, sia per ciò che concerne l’interpretazione dei segnali visivi (Koutedakis, 1995), nonché una diminuzione della memoria a corto termine (Guézennec, 2000). Inoltre la fatica cronica può essere all’origine di uno stato ansiogeno o depressivo (Dishman, 1997). Anche la secrezione di catecolamine potrebbe giocare un ruolo importante negli aspetti di natura neurochimica legati alla fatica centrale. Alla fine di un esercizio esaustivo è infatti possibile notare nel tessuto cerebrale una diminuzione della concentrazione di noradrenalina, che sembrerebbe essere dovuta ad un aumento del suo turn over. Lo stesso fenomeno è osservabile, in maniera ancor più evidente, a livello del tronco cerebrale, dell’ippocampo e dell’ipotalamo (Gandevia e coll., 1996). Questo quadro sarebbe simile a quello osservato nel corso di stress psicologico acuto nel quale è appunto possibile notare una deplezione delle riserve di catecolamine cerebrali. La conseguenza di questa diminuzione nelle riserve di noradrenalina si ripercuoterebbe a livello comportamentale e potrebbe essere responsabile dell’insorgenza di possibili stati depressivi.

Rimanendo nell’ambito della risposta adrenergica, è importante notare che anche la dopamina può influenzare fortemente l’attività muscolare. L’aumento dell’attività dopaminergica nello striatum induce infatti un aumento spontaneo della motricità.. A livello cerebrale, durante un esercizio prolungato è possibile osservare in un primo tempo un leggero aumento della concentrazione dopamina, a cui fa seguito, nella seconda parte dell’esercizio stesso, quando quest’ultimo si avvicina al punto di esaurimento, una sua leggera diminuzione (Seguin e coll., 1998). Questa variazione della concentrazione di dopamina cerebrale nel corso di un esercizio prolungato che porti ad esaurimento, potrebbe essere giustificata dal fatto che questo neuromediatore attraversi una prima fase accelerata di liberazione a cui consegua una seconda fase di diminuzione secretoria dovuta ad un esaurimento delle sue riserve neuronali. Sempre a questo proposito è stata avanzata l’ipotesi di una deplezione di tirosina che costituisce il precursore delle catecolamine. In qualsiasi caso il ruolo ricoperto dalle catecolamine nell’insorgenza dell’affaticamento organico, è sperimentalmente provato dal fatto che la somministrazione, prima dell’esercizio, di anfetamina e di agonisti dopaminergici e/o adrenergici, aumenta nell’animale la durata di sopportazione allo sforzo (Seguin e coll., 1998).

IL RUOLO DELLA SEROTONINA NELL’INSORGENZA DELLA FATICA

Il ruolo svolto dalla serotonina nel fenomeno della fatica organica, è ormai divenuto un aspetto dogmatico del problema in seguito soprattutto ai lavori di sintesi svolti da Newsholmes e coll. (1987) e Chauloff (1989). Quest’ultimo fu il primo a mettere in evidenza sperimentalmente l’aumento della concentrazione di serotonina a livello cerebrale in seguito ad esercizio prolungato e/o ad allenamento inteso protratto per più settimane. D’altro canto numerosi altri lavori, anche se non in ambito prettamente sportivo, avevano già sottolineato il ruolo della serotonina sul sonno, l’assunzione alimentare, gli stati ansiosi e quelli depressivi. A questo proposito ad esempio possiamo ricordare come sia da tempo noto che uno stato ansioso sia caratterizzato da un aumento della concentrazione cerebrale di serotonina, mentre al contrario, uno stato depressivo veda ridursi i livelli di serotonina cerebrale. Per tutta questa serie di motivi il fatto che all’esercizio prolungato che conduce al fenomeno della fatica, consegua un aumento dei livelli di serotonina cerebrale, ha portato alla naturale formulazione dell’ipotesi che questo neuromediatore sia fortemente implicato, se non addirittura il responsabile principale, dell’insorgenza della fatica centrale. In questo senso numerose sperimentazioni condotte su modello animale confermano il fatto che l’aumento o la diminuzione del tono serotoninergico, indotto attraverso l’utilizzazione di agonisti od antagonisti serotoninergici, influiscano sul fenomeno d’insorgenza della fatica (Bailey e coll. 1993). Occorre comunque ricordare che lo stesso tipo di sperimentazioni condotte sull’uomo, non ha permesso di confermare i risultati ottenuti sull’animale (Seguin e coll., 1998). Altre sperimentazioni, sempre effettuate allo scopo di poter confermare il ruolo svolto dalla serotonina sulla comparsa insorgenza della fatica, hanno utilizzato la somministrazione di aminoacidi a catena ramificata (AABC). Gli AABC infatti entrando in competizione con il triptofano, sostanza precursore della serotonina a livello del passaggio attraverso la barriera emato-encefalica, dovrebbero limitare la produzione di quest’ultima a livello cerebrale. Tuttavia i risultati ottenuti da Blomstrand e coll., (1991), dopo la somministrazione di AABC prima di una prova di maratona, hanno permesso di evidenziare solamente un incremento dei risultai ottenuti nel corso di una batteria di test psico-sensoriali, ma non un incremento della prestazione di gara. Questi risultati sono in linea con quelli ottenuti da Bigland-Richie e coll.(1979), i quali non riportano di alcun miglioramento della performance, durante un raid effettuato in alta quota, in seguito alla somministrazione di AACB. L’insieme delle sperimentazioni condotte sull’uomo quindi non permetterebbe di evidenziare nessun risultato positivo, in termini di incremento della performance, legato alla diminuzione del fenomeno di affaticamento, indotto dall’utilizzo di AABC. Ma vi sono numerosi altri limiti e contraddizioni nella teoria che vede la serotonina come principale fattore d’insorgenza della fatica centrale, uno di questi è costituito dalla mancanza di coerenza tra i dati desumibili dai test comportamentali e gli effetti psicotropi attribuibili all’azione della serotonina stessa. La fatica acuta od il sovrallenamento cronico, infatti , indurrebbero l’insorgenza di turbe comportamentali a sfondo principalmente depressivo caratterizzate da una carenza serotoninergica (Guèzennec, 2000). Questi dati mal si concilierebbero con l’iperserotoninergia che si registra nel corso dell’esercizio fisico strenuo. Seguin e coll. (1998) hanno tentato di spiegare questa contraddizione mettendo in evidenza una diminuzione della recettività di alcuni recettori serotoninergici in seguito all’esercizio prolungato. D’altro canto anche altri risultati molto recenti riferirebbero di una caduta, al di sotto dei livelli basali, della concentrazione di serotonina in alcune aree cerebrali, riscontrabile alla fine dell’esercizio (Guèzennec, 2000). I due dati di cui sopra, potrebbero quindi far propendere verso un ipotesi di carenza di tono serotoninergico che sopravverrebbe durante la fase di recupero successiva all’esercizio. In tutti i casi la mancanza di omogeneità e di perfetta coerenza tra i vari risultati ritrovabili in letteratura mostrano come, in ultima analisi, sia sostanzialmente erroneo limitare il fenomeno dell’insorgenza della fatica centrale esclusivamente alla teoria serotoninergica. In effetti gli aspetti comportamentali, ivi compreso quindi il fenomeno della fatica, risultano essere influenzati per la maggior parte dei casi, da un delicato equilibrio esistente tra numerosi neuromediatori. A titolo di esempio possiamo ricordare come gli studi inerenti l’aspetto neurochimico del sonno, mostrino come quest’ultimo dipenda da una complessa azione sinergica ed interdipendente di numerosi neuromediatori in altrettanto numerosi ambiti strutturali, gli aspetti neurochimici della fatica quindi potrebbero essere improntati su di un meccanismo del tutto, od in parte simile a questo.

IL RUOLO DELL’AMMONIACA

Occorre anche ricordare il possibile meccanismo d’intervento dell’ammoniaca legato alla manifestazione della fatica. L’encefalo utilizza come via di metabolizzazione dell’ammoniaca la trasformazione del glutammato in glutammina. L’iperammonemia quindi provoca una diminuzione della concentrazione del glutammato in alcune aree cerebrali specifiche. Dal momento che il glutammato costituisce il principale precursore dell’acido gamma amminobutirrico (GABA), questa catena di eventi porta ad un abbassamento della sua concentrazione a livello encefalico. Il GABA è il neurotrasmettitore maggiormente presente a livello del SNC ed esercita un importante ruolo di regolazione, di tipo inibitorio, sulla liberazione di altri neurotrasmettitori, oltre ad agire direttamente sui nuclei grigi della base facilitandone il compito di regolazione che questi svolgono sulla motricità. La carenza di GABA inoltre gioca un ruolo fondamentale nella patogenesi di alcune malattie come il morbo di Parkinson e la Corea di Huntington. Tutta questa serie di dati farebbe ragionevolmente propendere verso l’ipotesi che la carenza del sistema GABAenergico, registrabile nel corso dell’esercizio intenso e prolungato, possa giocare un ruolo importante nella manifestazione della fatica a livello centrale. I risultati sperimentali sembrerebbero confermare, per lo meno parzialmente, questa ipotesi, mostrando come il sistema GABA-glutammato-glutammina sia particolarmente attivo, in alcune aree cerebrali, nel corso dell’esercizio esaustivo.

UN MODELLO TRIDIMENSIONALE DELLA FATICA.

Secondo alcuni autori il rapporto tra l’intensità dello sforzo e la sensazione di fatica può essere anche interpretato attraverso tre modelli fortemente interagenti tra loro.

Il primo modello è il già descritto modello "classico" della fatica periferica, denominato appunto "modello periferico", nel quale i fattori regolatori e/o inibitori sono esclusivamente di ordine metabolico (Kay e coll., 2001; Kirkendall, 1990; Fitts, 1994; Basset e Howley, 1997.).

Nel secondo modello, denominato "centrale-teleoanticipatorio" , il meccanismo di controllo della fatica funziona essenzialmente come un dispositivo di sicurezza che viene posto in atto da un meccanismo subcosciente a livello cerebrale. Il meccanismo regolatorio cerebrale viene modulato sulla base di input, sia centrali, che periferici, ed il cui scopo è quello di preservare l’integrità strutturale della fibra muscolare, prevenendo possibili danni irreversibili a quest’ultima attraverso una riduzione od un arresto totale dell’attività. Nel modello "centrale-teleoanticipatorio", il cervello svolge il ruolo di principale regolatore dell’intensità e della durata dell’esercitazione, che viene mantenuta ad un grado sub-massimale prefissato in modo tale che il sistema periferico non sia mai utilizzato a livelli massimali (St Clair Gibson e coll., 2001; Wagenmakers, 1992; Kay e coll., 2001.)

In questo secondo modello quindi il fenomeno della fatica può essere considerato come un vero e proprio "atto anticipatorio di sicurezza" che abbia lo scopo di prevenire, sia un eccessivo accumulo di metaboliti, che un’esagerata deplezione di substrati energetici. In questo secondo modello, l’attività non è mai massimale ma viene al contrario mantenuta costantemente a livelli sub-massimali. Ulmer (1996) avanza l’ipotesi che in questo modello i comandi neurali efferenti regolino a livello del muscolo scheletrico, non solamente i pattern di attivazione spaziali e temporali, ma anche il rateo metabolico responsabile della produzione di potenza da parte del muscolo. Questo tipo di meccanismo protettivo, potrebbe spiegare come nel muscolo scheletrico la concentrazione di ATP non scenda mai al di sotto del 60-70% dei valori di riposo anche durante un esercizio di tipo esaustivo (Fitts, 1994; Spriet e coll., 1987). Il modello "centrale-teleoanticipatorio", sarebbe quindi il responsabile del decremento dell’intensità dell’esercizio anche in presenza di sufficienti riserve energetiche, per cui la manifestazione di fatica sarebbe il risultato di un comando efferente di tipo inibitorio, derivante da una sorta di "calcolo mentale". In altre parole il decremento dei comandi efferenti di origine neurale, sarebbe causato dagli adattamenti a livello corticale del processo subcosciente teleoanticipatorio che si verificano in seguito alle risposte agli input afferenti di origine metabolica provenienti dagli organi e dalle strutture periferiche. Nel terzo tipo di modello denominato di "discussione-cognitiva", è la sensazione di fatica stessa che, a livello cosciente, utilizzando le antecedenti esperienze come secondo termine di paragone, regola l’intensità dell’esercizio. In questo terzo modello la fatica costituisce una sorta di processo continuativo che modifica costantemente lo stato funzionale dell’individuo e modula il suo livello di attività (Kay e coll., 2001; Kay e Marino, 2000). Nel modello di "discussione cognitiva" si mette quindi in atto un sinergismo tra la percezione cosciente dello sforzo ed il sistema teleoanticipatorio subcosciente nella regolazione dell’intensità dell’attività svolta (Kirkendall, 1990; Davis JM, Bailey, 1997). Un esempio esplicativo di questo terzo modello può essere quello di un’attività sportiva svolta in presenza di spettatori, in questo caso l’attività stessa può risultare spesso meno gravosa e la percezione dello sforzo minore, proprio perché la motivazione generata dalla fonte esterna, in questo caso gli spettatori, può ridurre gli input afferenti periferici provenienti dalla muscolatura (St Clair Gibson e coll., 2001b). In questo caso si correre il rischio di un’alterazione della strategia comportamentale nei confronti della fatica, basata sull’influenza degli stimoli esterni. Infatti il livello del meccanismo di retrocontrollo della fatica stessa, dato dall’interazione tra il modello di discussione-cognitiva e quello centrale-teleoanticipatorio, potrebbe elevarsi eccessivamente, e con esso l’intensità dell’esercitazione. Il modello di "discussione-cognitiva" quindi potrebbe essere considerato come l’ultimo stadio d’integrazione decisionale nei confronti della fatica, in quanto la durata e l’intensità dell’esercizio, ossia gli aspetti decisionali nei confronti dello stesso, vengono assunti, sia in base agli input metabolici muscolari provenienti dal modello periferico, che secondo l’attivita centrale-teleoanticipatoria generata dal livello corrente di attività; questi due aspetti vengono quindi integrati nel modello di discussione-cognitiva, nel quale la percezione della fatica proveniente dal livello di attività in corso, viene comparata a precedenti esperienze di fatica (Kay e coll., 2001). La fatica quindi in questo caso diviene un regolatore attivo e non più una conseguenza passiva del processo di controllo (Kay e coll., 2001; Sargeant, 1994).

LE MANIFESTAZIONI MIOELETTRICHE DI FATICA MUSCOLARE

Negli ultimi anni, accanto agli studi di tipo prettamente metabolico, si sono fortemente sviluppati dei metodi d’indagine di tipo non invasivo, rivolti allo studio dei fenomeni bioelettrici indotti dalla fatica. I presupposti teorici sui quali tali studi si basano sono costituiti dal fatto che esistono particolari condizioni di lavoro durante le quali la produzione di forza richiesta è talmente bassa da poter permettere la prosecuzione del lavoro spesso per molte ore, questi particolari tipi di lavoro muscolare e vengono denominati low level static exertions. Durante questo tipo di regime di contrazione si ipotizza che le protagoniste principali della produzione di forza siano le unità motorie (UM) composte da fibre di tipo ST, questa teoria in fisiologia è nota come l’ipotesi di Cenerentola (Hägg., 1991). Questa ipotesi è del resto del tutto conforme alla legge di reclutamento di Henneman , secondo la quale le prime UM ad essere reclutate e de-reclutate, in una contrazione che richieda bassi livelli di forza, sarebbero quelle composte da fibre di tipo I. Un altro parametro importante di cui tenere conto durante le indagini di tipo elettromigrafico sullo studio della fatica muscolare, è costituito dalla pressione intramuscolare (PI). Le caratteristiche del muscolo infatti subiscono dei cambiamenti al variare della condizione ischemica che è a sua volta correlato all’aumento della PI che si verifica durante la contrazione muscolare stessa, soprattutto a causa della diminuzione del flusso sanguigno distrettuale e del conseguente aumento di metaboliti (Merletti e coll., 1984). Durante una contrazione muscolare di tipo massimale si possono infatti raggiungere valori di PI pari a 400-500 mmHg, mentre in contrazioni di entità molto più modesta, compresa tra il 5 ed il 10% della massima contrazione volontaria, il valore di PI può essere all’incirca pari a 30 mmHg. In queste condizioni la durata della contrazione può essere mantenuta per lungo tempo, correndo tuttavia il rischio di incorrere in una necrosi muscolare (Sjøgard e Jensen., 1999). Tutta questa serie di fenomeni, comporta una perturbazione del ciclo eccitazione/contrazione ed una conseguente alterazione del segnale elettrico di superficie, nel quale è possibile notare delle alterazioni a carico dell’ampiezza, della forma e della velocità di propagazione del potenziale di azione. Tutta questa serie di fenomeni è nota con il temine di "manifestazioni mioelettriche di fatica muscolare localizzata". Questo genere di sperimentazioni vengono effettuate durante una contrazione di tipo isometrico, che anche se non può essere ovviamente definita come un pattern di attivazione perfettamente sovrapponibile al comportamento muscolare che avviene durante una condizione naturale, offre comunque un modello sperimentale di osservazione molto standardizzabile e senz’altro meno influenzabile da fattori esterni non correlati al fenomeno di fatica indagato, come ad esempio l’artefatto costituito dal movimento del muscolo rispetto agli elettrodi di superficie che si verifica durante un movimento dinamico (Rainoldi. e coll., 2000).

Le variabili ed i parametri del segnale mioelettrico

Allo scopo di caratterizzare e rendere disponibile allo studio il segnale mioelettrico, registrato attraverso l’elettromiografia di superficie, ossia tramite l’applicazione di elettrodi sopra la superficie cutanea, vengono utilizzate delle grandezze fisiche che sono classificabili "nel dominio del tempo", dal momento che per la propria determinazione richiedono il solo tracciato temporale del segnale, e "nel dominio della frequenza", per il fatto che il loro calcolo necessiti l’analisi spettrale del segnale e che quindi forniscano informazioni sullo spettro del segnale stesso.

Le variabili identificabili nel dominio del tempo, forniscono quindi informazioni sull’ampiezza del segnale, mentre quelle appartenenti al dominio della frequenza permettono lo studio della scomposizione in armoniche del segnale, ossia ci danno informazioni riguardanti il contributo in termini di ampiezza e di potenza fornito da ogni armonica ottenuta attraverso l’analisi di Fourier del segnale stesso.

Le variabili identificabili nel dominio del tempo, altrimenti chiamate "variabili d’ampiezza" normalmente utilizzate nell’ambito dello studio del segnale mioelettrico ricavato dall’elettromiografia di superficie sono:

  • Il Valore Rettificato Medio (Average Rectified Value, ARV): che rappresenta l’area sottesa dal segnale elettromiografico nell’intervallo di tempo T divisa per T.
  • Il Valore Efficace (Root Mean Square), che è una grandezza correlata alla potenza del segnale.

Le variabili nel dominio della frequenza maggiormente utilizzate sono:

-La frequenza media dello spettro di potenza (MNF) , che rappresenta il valore baricentrale di frequenza dello spettro di potenza.

-La frequenza mediana dello spettro di potenza (MDF), che rappresenta il valore di frequenza che divide in due parti di eguale area lo spettro di potenza, per cui il 50% del segnale sarà costituito da armoniche inferiori a MDF ed il restante 50% del segnale sarà costituito da armoniche superiori a MDF.

Una ulteriore variabile che riveste una grande importanza nello studio del segnale elettromiografico, è la velocità di conduzione delle fibre muscolari (CV). La CV è ricavata grazie all’utilizzo di due elettrodi posti sulla superficie cutanea che permettono di calcolare il rapporto e/t , intendendo con e la distanza tra i due sistemi di elettrodi e con t il ritardo tra il segnale registrato dal secondo elettrodo e quello registrato dal primo. Alcuni studi hanno dimostrato come la stima della CV sia correlata con la percentuale di fibre di tipo II ottenibile attraverso la biopsia muscolare effettuata nel vasto mediale di 7 marciatori e 12 sprinters (Merletti., 200). Appare quindi chiaro l’interesse che riveste questo parametro nell’ambito di una possibile tecnica non invasiva di determinazione della tipologia delle fibre.

Il cambiamento del segnale mioelettrico in condizioni di affaticamento muscolare.

Nel corso di una contrazione muscolare isometrica sub-massimale protratta nel tempo, il segnale mioelettrico, a causa dell’insorgenza del fenomeno della fatica, presenta una diminuzione della CV ed un progressivo depauperamento dei contributi di alta frequenza. Lo spettro del segnale si sposta verso sinistra e le armoniche significative presentano valori progressivamente inferiori (Merletti, 2000). La diminuzione del valore di CV comporta inoltre una concomitante diminuzione dei valori di MDF e MNF ed un aumento dei valori di ARV ed RMS. Quindi lo spostamento verso sinistra dello spettro del segnale e la compressione delle sue variabili riflettono il decremento del valore di CV (Lindsrtom e Magnusson, 1977). Come dimostrato da alcuni lavori sperimentali (Merletti e Roy, 1996), lo studio dei cambiamenti dei parametri mioelettrici di fatica correlati alla capacità di mantenere una contrazione isometrica sub-massimale protratta nel tempo, possono quindi fornire importanti informazioni sulla tipologia delle fibre muscolari considerate.


Figura 2 Spettro di potenza del segnale elettromiografico registrato in tre distinti momenti (A, B, e C) di una contrazione muscolare protratta nel tempo. I vari spettri sono normalizzati rispetto al massimo valore di picco. E’ interessante notare la diversa scala di ampiezzi dei tre spettri. (Da Merletti, 2000, modificato)

CONCLUSIONI


Per ciò che riguarda la fatica periferica, alla luce di questi dati, non possiamo altro che sottolineare ancora una volta e fortemente l’eziologia multifattoriale legata al fenomeno della sua insorgenza. Multifattorialità quindi che esclude a priori l’esistenza di un unico modello ma che al contrario, sottolinea l’esistenza di numerosi fattori che si situano in altrettanto diverse e numerose tappe della catene fisiologica esecutiva della contrazione muscolare. Per questa ragione anche se indubbiamente la diminuzione della concentrazione di alcuni "composti chiave" della bioenergetica muscolare, come in particolare la PCr ed il glicogeno, rivestono senza alcun dubbio un ruolo chiave nel fenomeno, il ruolo della perturbazione dell’omeostasi cellulare nella sua totalità, appare tanto determinante quanto estremamente complesso. Potremmo comunque definire il fenomeno della fatica periferica come un fenomeno " a cascata" di tipo essenzialmente protettivo, che la cellula mette in atto per preservare la sua integrità, rispondendo all’imperativo di base di ogni organismo vivente che altro non è che "l’autoprogrammazione per la sopravvivenza". Interrompere il lavoro per non autodistruggersi, questa sembrerebbe essere quindi la motivazione ultima del fenomeno. Nuovi campi d’indagine, apertisi negli ultimi anni, sembrerebbero essere particolarmente promettenti, come quelli rivolti allo studio del ruolo dei radicali liberi, del monossido di azoto, dell’AMP, oppure del magnesio, tuttavia una chiara ed inequivocabile gerarchizzazione dei fenomeni che costituiscono questo complicato, quanto perfetto meccanismo, che impedisce l’autodistruzione cellulare, sembrerebbe ancora lontana.

Per quello che riguarda la fatica centrale invece, se ad una parte tutta le sperimentazioni di tipo elettrofisiologico svolte in quest’ambito tendono unanimemente a disegnare un suo schema di tipo lineare, che parte dalla corteccia motrice per arrivare alla cellula muscolare, dall’altra l’approccio di tipo neurofisiologico lascia trasparire un quadro di notevole complessità, caratterizzato dall’integrazione di numerosi neuromediatori, la cui funzione, se studiata isolatamente, non permette di spiegare esaustivamente e razionalmente il fenomeno.

In ultimo il modello tridimensionale della fatica ci permette di capire quanto i fattori centrali siano fortemente integrati con quelli centrali di ordine cognitivo e decisionale, sottolineando una volta di più, la grande complessità del problema.

Cerchiamo quindi di capire come avviene quello che è uno dei disastri naturali maggiormente temuti in natura. Questo fenomeno viene ben descritto dalla cosiddetta "teoria del granello di sabbia" che ben illustra come il sistema raggiunga un punto di "non ritorno" che lo porta al suo collassamento, un po’ come avviene nel nostro organismo quando , a poco a poco, si fa strada il fenomeno della fatica. Immaginiamo dunque un banalissimo mucchietto di sabbia, come quello che fanno abitualmente i bambini sulla spiaggia, che cosa succede se aggiungiamo via via dall’alto dei granelli di sabbia? In un primo momento il nostro mucchietto diventa di dimensioni sempre maggiori e questo sembrerebbe tutto quello che in definitiva possa avvenire. Ma osserviamolo più attentamente da vicino: in effetti il pendio che si viene a formare non è del tutto liscio, se avessimo a nostra disposizione una forte lente d’ingrandimento, potremmo facilmente notare come lungo il suo decorso si formino numerose irregolarità costituite da tante piccolissime fossette ed altrettanto microscopici avvallamenti, che si vengono a poco a poco a colmare con l’aggiunta dei granelli di sabbia che cadono dall’alto. A furia di aggiungere sabbia, la pendenza del nostro mucchietto, ormai divenuto di una certa dimensione, è praticamente completamente liscia, dal momento che tutte le irregolarità si sono colmate (riquadro 3). A questo punto abbiamo raggiunto il "punto critico", se ora aggiungiamo ancora anche un solo granello di sabbia, quest’ultimo non troverebbe nessuna fossa od avvallamento dove potersi fermare e scivolerebbe inesorabilmente a valle (riquadro 4) , trascinando con se un numero più o meno importante di altri granelli: ecco la valanga. Dopo l’evento del fenomeno, ossia dopo la discesa a valle della valanga, il cumulo di sabbia, ma a questo punto potremmo dire anche di neve, ritorna nuovamente irregolare come all’inizio ed un nuovo ciclo può compiersi.

 

 

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