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Argomento:
Traumatologia sportiva
Data:
2006
Testata:
New Athletic Research in Science Sport.195, 2006
 

Attività fisica ed osteoporosi
di Bisciotti Gian Nicola Ph. D.

Abstract
L’attività fisica riveste un ruolo essenziale nei programmi di lavoro rivolti alla cura ed alla prevenzione dell’osteoporosi. Tuttavia, tali piani di lavoro, per poter ottenere una risposta plastica soddisfacente da parte dell’apparato scheletrico , debbono essere necessariamente di una certa intensità, e proprio per questa ragione, non sempre ottengono una completa compliance da parte del paziente. Gli effetti della somministrazione controllata di vibrazioni sul corpo umano sono noti sin dal 1949, data del primo lavoro scientifico nell’ambito specifico. Tuttavia, solamente quaranta anni più tardi fu scientificamente riconosciuto il valore terapeutico delle vibrazioni per ciò che riguarda il loro effetto osteogenico, che giustifica la loro applicazione in medicina geriatrica in senso generale ed in alcune patologie specifiche come l’osteoporosi. Tale tipo di terapia si rivela particolarmente adatto nel paziente geriatrico che dimostri una scarsa compliance nei confronti di piani di lavoro maggiormente intensi ed impegnativi.

Introduzione
L’apparato scheletric
o assolve sostanzialmente tre funzioni, la prima delle quali è il fornire il supporto architettonico a muscoli e tendini in modo tale da permettere il movimento, la seconda è costituita dal suo ruolo protettivo nei confronti degli organi vitali, mentre la terza consiste nel fornire una riserva organica di calcio rivolta alla stabilizzazione della calcemia, fattore che viene perturbato soprattutto nei periodi di carenza alimentare. Per questi motivi lo scheletro, in qualunque età biologica, non costituisce una massa inerte ma al contrario un’entità plastica in perpetuo rinnovamento, basti pensare al fenomeno del processo di rimodellamento osseo che si registra durante l’accrescimento, oppure allla necessità di idonei fenomeni riparativi nel caso di frattura, senza dimenticare il suo appena citato ruolo di riserva organica di calcio. Il comportamento plastico dell’impalcatura scheletrica è orchestrato da due fenomeni fisiologici ben precisi:l’osteoriassorbimento, assicurato dagli osteoclasti, e l’osteoformazione riconducibile all’attività degli osteoblasti. Dal rapporto intercorrente tra questi due fenomeni, tra loro fisiologicamente antagonisti, risulta il possibile mantenimento, la perdita, oppure l’acquisizione di massa ossea. L’osteoformazione e l’osteoriassorbimento sono regolati da numerosi fattori di tipo genetico, ormonale, nutrizionale e meccanico. E’ da tempo noto come il fattore meccanico rivesta un ruolo di cruciale importanza nell’ambito del controllo dinamico del rimodellamento osseo, permettendo alla struttura ossea di potersi adattare nei confronti dello sforzo, per questo motivo la diminuzione degli impegni di tipo meccanico a livello scheletrico può costituire un serio problema in termini di mantenimento della massa ossea. Nel paraplegico infatti, si registra in media una diminuzione del 33% del volume trabecolare, nell’arco di sei mesi dall’insorgenza del danno neurologico, tale perdita ossea inoltre varia in funzione del distretto scheletrico considerato; può essere compresa tra il 25 ed il 66% a livello di segmenti ossei il cui compito biomeccanico è quello di sostenere il peso del corpo, come ad esempio la tibia, ma può essere ancora maggiore a livello del rachide lombare (Eser e coll., 2004; Eser e coll., 2005). Anche l’immobilizzazione gessata, può essere la causa di un importante quanto rapida perdita ossea, facilmente reversibile nell’adulto ma sfortunatamente in gran parte definitiva nel paziente in età geriatrica. A questo proposito è importante ricordare come subire un’immobilizzazione gessata la cui durata sia maggiore di tre settimane, negli ultimi dieci anni, raddoppi nell’anziano,il rischio di fratture del collo del femore (Schaeverbecke, 2004). A conferma dell’importanza che il carico gravitazionale riveste nel mantenimento della massa ossea, è interessante ricordare come anche l’assenza di gravità, a cui si è sottoposti durante i voli spaziali, comporti per l’organismo una perdita di calcio totale di circa l’1-2% (Di Prampero e Narici, 2003). Come ultimo fattore, ma non certamente in ordine d’importanza, ricordiamo di come la sedentarietà sia correlata ad un aumento del rischio d’insorgenza dell’osteoporosi infatti, la drastica diminuzione di stimoli sull’impalcatura scheletrica, induce sostanzialmente due effetti: il primo consistente nell’accelerazione del riassorbimento osseo, che a sua volta si traduce in un aumento della calciuria soprattutto nel caso d’immobilizzazione forzata del soggetto oppure condurre, nel bambino ad un ipercalciemia, il secondo effetto invece consiste in un importante diminuzione del processo di osteoformazione. Entrambi i fattori ovviamente conducono ad una sostanziale diminuzione della massa ossea. (Sowers, 2000)

Il ruolo dell’attività fisica nel rimodellamento scheletrico

I meccanismi attraverso i quali l’attività fisica è in grado d’influire positivamente sul processo di rimodellamento osseo sono relativamente complessi. Da un punto di vista cellulare sembrerebbe che solamente gli osteoblasti siano forniti di meccanorecettori (Schaeverbecke, 2004) e che, proprio per questo motivo, siano in grado di rispondere positivamente nei confronti di un aumento delle forze di compressione. Contestualmente a ciò, e per la stessa ragione fisiologica, una diminuzione di queste ultime, indotta da microgravità, trazione o stiramento, è in grado di diminuire l’attività osteoblastica inducente osteoformazione, lasciando invariato il processo di riassorbimento osseo (Schaeverbecke, 2004). Grazie a questo processo, è possibile ad esempio ottenere un rimodellamento di tipo progressivo dei segmenti ossei che, in seguito frattura, si siano consolidati in maniera incorretta. In questo caso il processo di rimodellamento è in grado di effettuare un’azione correttiva nei confronti della deformazione ossea, apportando, in virtù delle forze compressive, nuovo materiale osseo a livello della concavità del segmento osseo stesso ed esercitando simultaneamente un processo di riassorbimento osseo a livello della deformazione in convessità, grazie alle forze di trazione a cui quest’ultima viene sottoposta. A questo proposito è importante sottolineare che la sensibilità dei meccanorecettori sembrerebbe regolata e modulata sia dall’età, che dal livello ormonale ( Evans e Campbell, 1993; Snelling e coll., 2001). Per questo motivo la loro efficacia diminuirebbe nel corso del processo d’invecchiamento. Questo fatto potrebbe, almeno in parte, spiegare la fisiologica perdita di massa ossea che si registra durante l’invecchiamento (Evans, 1992). In altre parole, nel soggetto anziano, i meccanorecettori situati a livello degli osteoblasti, a parità di carico compressivo, diminuirebbero la loro risposta, in tal modo l’attività osteoblastica si disgiungerebbe progressivamente rispetto a quella di tipo osteoclastico, inducendo pertanto una cascata di fenomeni fisiologici che sfocerebbero in una più o meno importante perdita di massa ossea.

L’osteoporosi come malattia sociale

L’osteoporosi è un osteopatia metabolica ad eziologia complessa, caratterizzata da una riduzione localizzata o generalizzata di tessuto osseo, la cui matrice osteoide, a seguito di uno squilibrio tra velocità di sintesi e velocità di degradazione, pur rimanendo normalmente mineralizzata, risulta essere quantitativamente ridotta. All’esame radiologico sono evidenziabili una rarefazione ossea, un assottigliamento ed una riduzione numerica delle trabecole, nonché un aumento degli spazi midollari. Si distingue una forma senile e post-menopausale, ed una forma secondaria ad immobilizzazione prolungata od a disturbi endocrini. In particolare, nella popolazione femminile, il deficit di estrogeni che si registra nel periodo della menopausa, causa un accelerato turnover osseo ed una perdita di massa ossea (Flieger e coll., 1998; Stepan e coll., 1987), per questo motivo l’osteoporosi colpisce una donna su quattro, mentre nella popolazione maschile il rapporto è di uno su otto. L’osteoporosi s’accompagna a dolorabilità ossea, deformità scheletriche (in particolare cifosi), e ad una maggiore predisposizione alle fratture. Questa patologia ha ormai assunto, dato il progressivo aumento dell’età media della popolazione, le dimensioni di un vero e proprio problema socio-economico, che affligge la popolazione anziana su scala planetaria (Flieger e coll., 1998). Solamente in Italia il costo sociale di questa malattia ammonta a cinquecento milioni di Euro annui. A titolo informativo riportiamo in tabella 1 e2 i valori d’incidenza dell’osteoporosi in Italia rispettivamente per la popolazione maschile e per quella femminile.

 

Età

Percentuale d’incidenza

55-59 anni

17.5%

60-64 anni

24%

65-74 anni

32.3%

Oltre i 75 anni

42.1%

Tabella 1: incidenza dell’osteoporosi in Italia riguardante la popolazione femminile.

Età

Percentuale d’incidenza

55-59 anni

2.1%

60-64 anni

2.4%

65-74 anni

6.3%

Oltre i 75 anni

11.3%

Tabella 1: incidenza dell’osteoporosi in Italia riguardante la popolazione maschile.

La diagnosticaNella valutazione clinica del paziente osteoporotico la misurazione della massa ossea riveste un ruolo di primaria importanza, soprattutto in virtù della possibilità di previsione dei futuri rischi di frattura che tale dato è in grado di fornire, oltre naturalmente al fatto di costituire un affidabile strumento di monitoraggio terapeutico. Le moderne tecnologie introdotte negli ultimi anni, hanno notevolmente migliorato l’approccio diagnostico consentendo di ottenere una quantificazione sia della massa, che della densità ossea notevolmente migliori rispetto a quanto non fosse possibile attraverso la diagnostica radiologica tradizionale, che in effetti, proprio a causa della sua scarsa accuratezza, talvolta fornisce indicazioni non del tutto attendibili. Grazie a queste nuove metodiche diagnostiche è anche possibile formulare una stima della probabilità di rischio di frattura in virtù della determinazione del contenuto minerale scheletrico ai suoi vari livelli ed in particolare nelle sedi maggiormente considerate a rischio di evento fratturativo, ossia il collo del femore, il tratto lombare della colonna vertebrale ed il polso. Tra le diverse metodologie diagnostiche disponibili, la densitometria ossea (DXA) è considerata quella che presenta il miglior rapporto costi/benefici, valutando soprattutto i costi di gestione non eccessivamente rilevanti e la variabilità analitica molto ridotta. Le sedi anatomiche d’indagine che in grado di fornire le maggiori informazioni di ordine clinico, in pazienti di età inferiore ai 65 anni, sono il tratto lombare della colonna, il femore e l’avambraccio. Nell’ottica previsionale del rischio fratturativo, la scansione "Total body" si presenta invece di minore interesse, risultando comunque valida al fine valutativo di rare forme osteoporotiche di tipo localizzato. Anche se le tecniche utilizzabili per valutare la massa ossea sono relativamente numerose, la quantificazione della densità ossea reale (intesa come rapporto tra massa e volume) può essere effettuata solamente attraverso la tomografia assiale (TA). Infatti attraverso le altre metodologie diagnostiche disponibili, è possibile ricavare solamente un dato di "densità convenzionale", che viene desunto dal rapporto intercorrente tra la massa e l’area del segmento scheletrico esaminato, che permette comunque di determinare il contenuto minerale dello scheletro in toto e/o dei segmenti ossei ritenuti di maggior interesse clinico ai fini di una previsione di rischio fratturativo. In ogni caso i due principi basilari che debbono essere precipuamente salvaguardati nella scelta del tipo d’indagine diagnostica da adottare, sono costituiti dall’accuratezza e dalla precisione di quest’ultima. L’accuratezze è definibile come la capacità di una determinata indagine tecnico-strumentale di poter fornire delle misure il più possibile attinenti alla situazione indagata,ossia il più attendibili possibile. La precisione di una tecnica diagnostica, invece è costituita dalla sua capacità di riproducibilità del dato desunto nell’ambito del medesimo campione e costituisce, per questo motivo, un importanza particolare nel caso di studi di follow-up.

La DXA

La DXA è una tecnica diagnostica in grado di fornire due diversi dati di tipo numerico: il contenuto minerale osseo (BMC) e la densità minerale ossea (BDM). Il BMC, che può essere considerato alla stregua di un indice ponderale, costituisce l’espressione in grammi del segmento osseo sottoposto a scansione. Tuttavia, pur essendo un dato che presenta un’alta riproducibilità, possiede uno scarso valore diagnostico. La BMD (espressa in gr/cm2), rappresenta il rapporto tra la massa e l’area del segmento osseo esaminato e costituisce di fatto un indice di densità. Per questo motivo viene considerata la misurazione maggiormente utile ai fini diagnostici. Il coefficiente di variazione della DXA è molto contenuto, dell’ordine dello 0.5-0.8% in vitro e dell’ 1-1.5% in vivo, contestualmente a ciò la DXA presenta l’indubbio vantaggio di sottoporre il paziente ad un’esposizione radiologica molto contenuta (compresa tra 1 e 5 uSv). Ai fini dell’interpretazione dei dati relativi la BMD, è stato convenzionalmente definito un valore al di sotto del quale si collocano i livelli di BMD che comprendono la maggior parte dei pazienti che presentano fratture osteoporotiche. Questo valore è stato fissato, limitatamente al periodo post-menopausale, ad un livello di 2.5 deviazioni standard (DS) al di sotto della media di riferimento costituita da giovani adulti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) suggerisce, come criterio di diagnosi di osteoporosi, il raffronto del valore di densitometria ossea desunto, espresso in DS, rispetto al picco di massa ossea (T-score) od in relazione al valore medio (Z-score) di soggetti sani di pari età e sesso. Il rischio di frattura aumenta esponenzialmente nel momento in cui i valori densitometrici relativi allo T-score risultano maggiori di 2.5 DS, valore che secondo i suggerimenti della WHO rappresenta la soglia di diagnosi di osteoporosi.

La densitometria ad ultrasuoni

L’utilizzo degli ultrasuoni (US) allo scopo di determinare la massa scheletrica, rappresenta una tecnica diagnostica relativamente recente. Gli US sono, dal punto di vista fisico, delle vibrazioni meccaniche in grado di propagarsi attraverso i materiali. Dal momento che il tessuto osseo presenta una densità elevata, le uniche onde a cui sia consentito il passaggio attraverso quest’ultimo, sono quelle a bassa frequenza e più precisamente di frequenza compresa tra 0.2 e gli 0.6 MHz per quello che riguarda le misurazioni effettuate sull’osso calcaneare e di 1.25 MHz per quello che concerne le misurazioni delle falangi. La trasmissione degli US attraverso una struttura porosa, come risulta essere quella ossea, non dipende solamente dalle proprietà peculiari del materiale attraversato ma anche dall’architettura e dalla sua struttura spugnosa. Il vantaggio che la densitometria ad US presenta nei confronti della densitometria tradizionale, è costituito del fatto che, mentre quest’ultima è in grado di fornire delle informazione di tipo esclusivamente quantitativo, attraverso la densitometria ad US si riescono a desumere delle informazioni anche di tipo qualitativo. Quest’ultimo aspetto costituisce un dato di estremo interesse per ciò che riguarda la previsione del rischio di frattura osteoporotico che, come ben noto, è dipendente non solamente dalla densità ossea ma anche dalla fragilità e dalle alterazioni strutturali dell’osso stesso. La quasi totalità delle apparecchiature ad US non fornisce immagini ma esclusivamente parametri di tipo numerico, che vengono desunti dall’interazione tra il fascio ultrasonico e la struttura ossea esaminata. I parametri misurabili sono la velocità con la quale l’onda sonora attraversa il segmento osseo (SOS, Speed Of Sound) e l’attenuazione degli US attraverso l’osso (BUA, Broadband Ultrasound Attenuation). La densitometria ad US presenta vantaggi e svantaggi: per ciò che riguarda i primi ricordiamo la già citata possibilità di fornire informazioni di tipo qualitativo oltre che quantitativo dello stato osseo, il basso costo, la facilità di trasporto dell’apparecchiatura e l’assenza di radiazioni; gli svantaggi sono invece costituiti dalla limitazione delle sedi anatomiche esaminabili, che di fatto sono il calcagno, le falangi e la rotula, inoltre occorre ricordare la scarsità di dati relativi all’accuratezza diagnostica.

La TAC

La TAC permette, rispetto alle tecniche densitometriche, la valutazione sia della parte corticale dell’osso, che di quella trabecolare. Tuttavia, pur essendo in grado di fornire un indubbio ed importante contributo per ciò che riguarda la comprensione della fisiopatologia osteoporotica, il suo utilizzo è di fatto limitato alla pratica clinica a causa dei suoi elevati costi gestionali, uniti all’alta dose di radiazioni a cui il paziente deve necessariamente essere sottoposto.

Gli esami di laboratorio

Anche se invero piuttosto raramente, il paziente osteoporotico può presentare importanti modificazioni dei più comuni esami di laboratorio. Per questo motivo una valutazione di tipo biochimico, può assumere in questo contesto, un’importante valenza ai fini di fornire informazioni utili allo scopo d’identificare le non infrequenti forme di osteoporosi secondaria (iperparatiroidismo, ipertiroidismo, malassorbimento intestinale, ipercorticosurrenalismo, insufficienza renale cronica, cirrosi biliare primitiva ecc.). Inoltre, le indagini biochimiche si rivelano particolarmente utili per ciò che riguarda la valutazione della risposta alla terapia farmacologia. Tuttavia, considerando la loro ampia variabilità analitica, gli esami di laboratorio si rivelano scarsamente utili nell’ottica della previsione di rischio di fratture e per la scelta di trattamenti specifici. In ogni caso, gli esami di primo livello devono mirare ad escludere le più comuni cause di osteoporosi secondaria quali l’iperparatiroidismo e la malnutrizione proteico-calorica, differenziandoli da altre patologie che non vengono invece evidenziate attraverso l’esame densitometrico o che possono coesistere con l’osteoporosi stessa come l’osteomalacia, il mieloma multiplo od il morbo di Paget osseo. Una prima valutazione dovrebbe comprendere:-calcemia e fosforemia-esame emocromocitometrico-quadro proteico elettroforetico (QPE)-dosaggio della fosfatasi alcalina totale (ALP)Oltre ai sopraccitati esami, dovrebbe essere comunque prevista una valutazione ormonale riguardante il dosaggio del testosterone libero nei pazienti di sesso maschile e di 17bEstradiolo e degli ormoni tiroidei nelle donne in pre-menopausa, se presente rilievo anamnestico di periodi di amenorrea.

Il paradosso del movimento nell’anziano

E’ a tutti noto come il processo d’invecchiamento porti ad un progressiva sedentarizzazione dello stile di vita del soggetto (Evans, 1992). A fronte di questo innegabile fenomeno, gli stimoli meccanici, indotti dall’attività fisica, dovrebbe in vecchiaia paradossalmente aumentare, per poter garantire al soggetto un mantenimento del suo capitale osseo a livelli costanti; questo sarebbe ancor più vero nei soggetti di sesso femminile in periodo post-menopausale, a causa della carenza di estrogeni che tendono a diminuire ulteriormente la soglia di stimolo dei meccanorecettori osteoblastica (Schaeverbecke, 2004). A questo punto sorge imperativamente il problema di quale possa essere la migliore attività fisica che, nell’anziano, possa costituire un valida strategia di cura o prevenzione del rischio osteoporotico. Gli esercizi che sono in grado d’indurre un innegabile effetto benefico sull’attività osteoblasitica, sono tutti quelli che prevedano una fase d’impatto di una certa entità, come ad esempio salti da altezze variabili ma comunque discretamente elevate (circa 60 cm), jogging, corsa ecc… Siamo, quindi, di fronte a programmi di lavoro basati su esercitazioni che poco si confanno all’età del paziente e che, ovviamente, non possono indurre una piena compliance da parte del soggetto nei confronti del programma di lavoro proposto. D’altro canto esercizi maggiormente confacenti a questa fascia d’età, come il nuoto od il ciclismo, non comportando alcuna fase d’impatto, hanno un effetto ben minore nei confronti del rimodellamento osseo (Schaeverbecke, 2004; Hatori e coll., 1993; Iwamoto e coll., 1998°; Iwamoto e coll., 1998b). Inoltre, prima di consigliare ad un paziente in età geriatrica con problemi osteoporotici, esercitazioni di tale tipo, occorre considerare che il margine esistente tra attività efficace ed attività potenzialmente a rischio, tende inequivocabilmente a ridursi in soggetti anziani che non abbiano l’abitudine all’esercizio fisico intenso (Vuori, 1996; Vuori, 2001). A questo proposito è importante ricordare come alcuni Autori (Negrini e coll., 1993) sconsiglino gli esercizi che comportino flessione della colonna, in quanto potenzialmente dannosi, in pazienti osteopenici che presentino valori di mineralometria ossea inferiore a 0.800 g/cm2. In ultima analisi quindi , uno degli ambiti d’intervento primari della medicina geriatrica è costituito dalla ricerca di strategie atte al raggiungimento dell’indipendenza funzionale del paziente, al conseguimento di una qualità di vita soddisfacente o comunque ad un suo miglioramento, unitamente all’ottenimento della massima compliance da parte del paziente. Oltre a ciò occorre che le attività proposte non costituiscano un potenziale fattore di rischio per la salute del paziente stesso.Gli obiettivi principali che queste strategie si pongono in termini concreti, sono la diminuzione e la prevenzione del disagio funzionale normalmente correlato all’età anagrafica del paziente, oltre che la restituzione dell’indipendenza funzionale del paziente stesso dopo che quest’ultimo abbia attraversato un periodo di malattia acuta. L’indipendenza funzionale, in questi casi, costituisce il fattore cruciale in grado di determinare la qualità ed il tipo d’intervento, anche perché il concetto stesso d’indipendenza funzionale è fortemente condizionato dalle aspettative di qualità di vita da parte del soggetto. A questo proposito, è importante sottolineare come alcuni studi evidenzino la differenza intercorrente tra l’aspettativa di vita, espressa in termini di longevità, e l’aspettativa formulata in termini d’efficienza fisica, da parte della popolazione femminile. Infatti se da una parte è ben nota l’alta aspettativa di vita della popolazione femminile in termini d’età, appare quanto meno controverso e problematico il fatto che, per ciò che riguarda l’aspettativa d’efficienza fisica, la popolazione maschile raggiunga livelli decisamente superiori (Runge e coll., 2000). Questa sproporzione tra longevità ed efficienza funzionale nella popolazione femminile è stata spesso definita con il termine di "paradosso gerontologico". Il fattore chiave nella determinazione della funzionalità dell’apparato locomotore in età geriatrica è costituito dalla funzionalità muscolare degli arti inferiori, seguito dalla mobilità muscolo-articolare, dalla biomeccanica del cammino e dall’equilibrio statico e dinamico (Guralnick e coll., 1995). Tuttavia, alcuni Autori suggeriscono come il fattore cruciale al fine di prevenire perdite d’equilibrio che possano causare cadute durante la deambulazione, sia la potenza muscolare, ossia il prodotto tra la velocità e la forza muscolare sviluppata durante il movimento stesso (Range e coll., 2000). La capacità della muscolatura degli arti inferiori nel generare potenza può quindi, a giusta ragione, essere considerato come il fattore cruciale nella prevenzione delle cadute nel soggetto anziano. L’incidenza delle fratture d’anca, dovuta alle cadute, raggiunge infatti nella popolazione anziana, cifre drammatiche, dell’ordine del 90%, e questo senza considerare le cosiddette fratture d’anca "osteoporotiche". Un fattore importante a questo proposito, che merita senza dubbio d’essere citato, è costituito dal fatto che la forza generabile da un complesso muscolare è comunque fortemente correlata allo sviluppo della massa ossea ed alla sua capacità di resistenza meccanica, in conformità a quanto enunciato dal paradigma di Utah (Frost e coll., 2002). Inoltre, la situazione di precarietà funzionale, dovuta al deficit muscolare e capace di ingenerare un alto rischio d’evento traumatico viene, nel soggetto anziano, ulteriormente aggravata nel caso di un sovraccarico ponderale (Pinilla e coll., 1996). Dal momento che le fratture d’anca costituiscono uno dei traumi più tragici in grado di’influenzare pesantemente le aspettative di vita del soggetto anziano, oltre naturalmente al suo declino funzionale, diviene imperativa, nell’ambito della medicina geriatrica, la ricerca di tutta una serie di strategie atte alla prevenzione ed alla diminuzione di tale evento. La prevenzione delle cadute, quindi, ricade esattamente in questo ambito , dal momento che queste ultime, come prima sottolineato, costituiscono il principale fattore di rischio. Mettere il soggetto anziano in condizione di poter prevenire un’eventuale caduta dalla posizione eretta, significa metterlo in grado di poter avere una rapida ed efficace risposta neuro-muscolare che si adatti perfettamente alla perturbazione dell’equilibrio subita (Guralnick e coll., 1995; Cummings e coll., 1995).

Figura 2: esercizi come il ciclismo od il nuoto, non comportando alcuna fase d’impatto, dimostrano un effetto minimo nei confronti del rimodellamento osseo.

L’applicazione delle vibrazioni in medicina geriatrica e nell’ambito specifico del paziente osteoporoticoI primi lavori scientifici riguardanti l’utilizzo delle vibrazioni a scopo terapeutico sull’uomo risalgono al 1949, quando Whedon e coll. (1949) riferirono degli effetti positivi ottenuti grazie all’applicazione di vibrazioni generate da uno speciale letto oscillante, sulle anormalità metaboliche di pazienti allettati in immobilizzazione gessata. Un successivo studio sperimentale (Hettinger, 1956) dimostrò come la somministrazione di vibrazioni di frequenza pari a 50 Hz e generanti un accelerazione pari a 10 g, fossero in grado di aumentare l’area di sezione muscolare, nonché di diminuire il tessuto adiposo all’interno del muscolo stesso. In campo prettamente terapeutico, quasi quaranta anni più tardi, Schiessl (1997a,b) brevettò l’utilizzo di un macchinario capace di generare oscillazioni di tipo rotazionale. Sempre nello stesso periodo Fritton e coll. (1997) misero a punto una macchina basata sulle oscillazioni di tipo traslatorio. In entrambi i casi il campo applicativo di queste apparecchiature era quello di tentare d’ottenere una stimolazione sulla crescita ossea, grazie a delle specifiche frequenze che potremmo definire con il termine di "osteogeniche". Un anno più tardi i lavori sperimentali di Flieger e coll. (1998), dimostrarono come nell’animale sottoposto a vibrazioni si registrasse un incremento nella proliferazione osseaRecenti studi (Runge e coll., 2000) hanno dimostrato come su di una popolazione anziana (139 donne e 73 uomini di età media 70,5 ± 6,78 anni, range compreso tra 60 e 90 anni) un programma d’allenamento della durata di due mesi, basato sulla somministrazione di vibrazioni generate da una piattaforma ad asse sagittale (Galileo 2000, Novotec Pforzheim, Germany), attraverso i seguenti parametri: frequenza delle vibrazioni pari a 27 Hz, ampiezza delle oscillazioni laterali di 7-14 mm, durata dell’allenamento pari a 3 serie di 2’ ciascuna, con cadenza trisettimanale, fosse in grado di migliorare la potenza degli arti inferiori, misurata attraverso un test specifico di sollevamento dalla posizione seduta, di ben il 36%. Questi dati ci dimostrano come l’allenamento vibratorio (AV) sia in grado di interrompere il circolo vizioso che tipicamente s’instaura in una popolazione anziana, creato dal fatto che nel paziente geriatrico la forza è strettamente dipendente dalle caratteristiche meccaniche della struttura ossea, fattore, quest’ultimo, in costante decadimento con l’avanzare dell’età. Oltre a ciò, non bisogna dimenticare il fatto che normalmente il paziente anziano non presenta una grande compliance nei confronti di un programma di condizionamento fisico, soprattutto se quest’ultimo, allo scopo di ottenere i migliori risultati, risulti essere di una certa intensità (Delecluse e coll., 2003). In questi casi l’AV si dimostra particolarmente efficace proprio grazie al suo alto potenziale terapeutico nell’ambito di un contesto particolare come quello geriatrico. L’AV infatti, deve essere considerato a tutti gli effetti alla stessa stregua di un esercizio attivo. L’obiezione, spesso posta, che l’AV provochi solamente una sorta di "spostamento passivo" della struttura ossea senza alcun coinvolgimento muscolare, è stata infatti smentita da alcuni recenti studi che dimostrerebbero, come durante l’AV stesso, sia registrabile un aumento della captazione di O2 da parte della muscolatura coinvolta, a testimonianza del suo coinvolgimento attivo (Rittweger e coll., 2000; 2001). L’AV, in ultima analisi, deve essere considerato come un’attività nel corso della quale la muscolatura coinvolta viene sollecita attraverso una rapida successione di brevi ed intense contrazioni eccentriche e concentriche (Rittweger e coll., 2001). Inoltre, dato il coinvolgimento attivo della muscolatura sottoposta a tale tipo di sollecitazione, l’AV comporta un costo energetico ben quantificabile. Ad esempio un AV basato su di una frequenza di 26 Hz e con 6 mm d’ampiezza oscillatoria, comporta un costo energetico paragonabile a quello del cammino moderato (Zamparo e coll., 1992). Oltretutto, questo costo energetico può essere incrementato aumentando la frequenza e l’ampiezza delle vibrazioni stesse (Rittwerger e coll., 2000).L’esercizio fisico è fortemente raccomandato anche ai pazienti afflitti da osteoporosi, sia nell’ambito del suo trattamento, che come forma di terapia preventiva (Flieger e coll, 1998). In effetti, la fisiologica stimolazione meccanica indotta dall’esercizio, si rivela particolarmente utile sia nel limitare la perdita ossea, che nello stimolare l’incremento della massa ossea stessa (Dalsky e coll., 1998; Smith e coll., 1989). La spiegazione del benefico effetto dell’esercizio fisico, risiederebbe nel fatto che la struttura ossea sottoposta ad un alto livello di stress meccanico, come nel caso dell’esercizio intenso, sarebbe in grado di sopprimere il meccanismo di rimodellamento osseo facilitandone in tal modo il processo conservativo (Frost , 1987; Frost, 1988; Frost, 1992). Tuttavia, solamente esercitazioni intense e prolungate si dimostrano in grado d’influenzare positivamente la densità minerale della massa ossea (BMD), esercizi che quindi mal si adattano, proprio a causa della loro intensità e durata, ad una popolazione anziana (Chestnut, 1993; Gutin e Kasper, 1992). L’AV, al contrario, permette una sollecitazione intensa dell’apparato scheletrico e muscolare, senza richiede un alto grado d’impegno da parte del paziente, rivelandosi in tal modo una strategia d’intervento particolarmente adatta nel caso del paziente anziano osteoporotico (Flieger e coll., 1997). L’applicazione della terapia vibratoria è infatti in grado di interferire positivamente sul metabolismo osseo (Stepan e coll., 1987; Christiansen e coll., 1980; Seireg e Kempke, 1969; Elson e Watts, 1980), anche in presenza di una degenerazione osteoporotica ( Petrofski e Phillips, 1984; Flieger e coll., 1997; Rittwerger e coll., 2000). Data l’evidenza di come l’AV sia in grado di favorire un aumento della BMD, possiamo quindi affermare che quest’ultimo possa costituire un mezzo terapeutico d’elezione in medicina geriatrica nell’ambito delle terapia atte alla cura ed alla prevenzione dell’osteoporosi, soprattutto considerando il fatto che i programmi basati su quest’ultimo ottengono una grande compliance da parte del paziente, anche e soprattutto da parte di quei soggetti che non abbiano l’abitudine all’esercizio fisico intenso, ed ai quali, per questa ragione, non sia possibile proporre programmi di lavoro particolarmente intensi ed impegnativi.

Figura 3-4: la somministrazione di vibrazioni, da un punto di vista biomeccanico, è sostanzialmente assimilabile ad un cadenzato susseguirsi di contrazioni concentriche ed eccentriche di piccola ampiezza (Rittweger e coll., 2001) ma con notevole componente accelerativa. Per questo motivo sono particolarmente adatte a stimolare, in senso osteoblastico, l’apparato scheletrico del paziente osteoporotico.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

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