Perche
mai piu di due ?
di Gian Nicola Bisciotti
Quando
ho ricevuto la richiesta dellamico
Ferretto di scrivere "un qualche cosa"
che avesse a che fare con il fenomeno della
fatica, il caso ha voluto che avessi appena
finito un articolo proprio su questo tema
specifico, il che mi ha facilitato in primo
luogo di molto il compito e secondariamente
mi ha permesso di poter scrivere in modo
semplice e, speriamo, abbastanza comprensibile
a tutti, su di un fenomeno, come quello
della fatica, invero molto complesso, ma
che mi sempre attratto proprio per questo
motivo. La richiesta di Ferretto è
stata molto precisa "cerca di dare
una risposta al fatto che attualmente risulti
di fatto impossibile ad un calciatore fornire
una prestazione di livello per un periodo
di tempo relativamente lungo", aggiungendo
"bisognerebbe cercare di spiegare come
mai non è possibile fornire una buona
prestazione per più di due partite
consecutive". Perché mai più
di due? Bella domanda e difficile risposta.
Non pretendo ovviamente di avere la risposta
richiestami , mi sembrerebbe quantomeno
presuntuoso, non posso quindi che cercare
di formulare una serie di ipotesi, speriamo
plausibili, che tentino perlomeno di avvicinarsi
per quanto possibile alla verità,
sempre ammesso che una verità esista.
In
primo luogo occorre ricordare come il fenomeno
della fatica sia di tipo multifattoriale,
intendendo con questo termine che dipende
appunto da molti fattori, alcuni dei quali
non ancora del tutto chiari, ed interagenti
tra loro in modo complesso. Pretendere di
spiegare il fenomeno dellinsorgenza
della fatica attraverso un unico fattore,
come ad esempio la produzione di lattato,
è oltremodo limitativo e fondamentalmente
errato.
Classicamente
si tende a suddividere il fenomeno in fatica
periferica e fatica centrale attribuendo
alla prima cause prevalentemente metaboliche
la cui sede è appunto il muscolo
(per questo motivo viene appunto definita
fatica periferica), ed alla seconda invece
motivazioni essenzialmente di tipo neurale.
In altre parole con il termine di fatica
nervosa o centrale si intende tutto quel
complesso di fattori che determinano la
diminuzione delle capacità di lavoro
muscolare indipendentemente dai fattori
intramuscolari e/o metabolici, nella fatica
centrale il problema è invece legato
alla trasmissione del segnale nervoso che
dal cervello arriva al muscolo.Tuttavia
il quadro generale non è sempre così
perfettamente distinguibile ed i vari fattori
scatenati si sovrappongono molto spesso
in maniera indistinguibile, rendendo la
situazione di difficile lettura interpretativa.
Nel
corso degli ultimi trentanni il concetto
di fatica si è piuttosto modificato
ed in un certo senso "evoluto".
Prima degli anni 70 infatti, fisiologicamente
la nozione di fatica era essenzialmente
un sinonimo dellesaurimento delle
scorte energetiche, prevalentemente dellATP
e dell accumulo di sostanze inibitrici
nei confronti dei meccanismi di ripristino
energetico (Westerblad e coll., 1991). Solamente
a partire dagli anni 80 si è
cominciato ad interpretare il fenomeno come
multifattoriale e reversibile, considerando
anche, sia la sua diversa velocità,
che i suoi differenti termini dinsorgenza.
Più tardi, a cominciare dagli anni
90, si è potuto assistere ad
un crescente consolidamento dei concetti
di plasticità muscolare, e si cominciato
soprattutto a considerare tutto quel complesso
di meccanismi rivolti all ottimizzazione
della produzione di forza da parte del muscolo
e della sua ricerca di un "attivazione
economica", (Korge e Campbell, 1995).
Diversi
ricercatori cominciarono a mettere in discussione
il fatto che uno dei fattori scatenanti
il fenomeno della fatica potesse essere
costituito dalla mancanza di ATP, dal momento
che la diminuzione di ATP viene efficacemente
controbilanciata dalla sua rigenerazione
anche nel muscolo affaticato. Perché
allora il muscolo nel corso del lavoro va
incontro al fenomeno dellaffaticamento?
Un
grosso aiuto nello studio dei meccanismi
che sono alla base della fatica periferica
è stato costituito, verso la fine
degli anni 70, dallavvento della
Risonanza Magnetica Nucleare, grazie alla
quale si è reso possibile lo studio
non invasivo ed in tempo reale dei meccanismi
energetici cellulari. Grazie allavvento
di questa nuova tecnica si è potuto
dare vita a tutta una serie di modelli che
hanno tentato e tentano tuttora di descrivere
il fenomeno, che resta comunque molto complesso
Proviamo
a passare velocemente in rassegna alcune
di quelle che possono essere le cause scatenanti
della cosiddetta "fatica periferica".
- Lalterazione
della pompa sodio-potassio
Nel
muscolo esiste un sistema di "pompaggio"
dallinterno allesterno della
fibra muscolare e viceversa, per quello
che riguarda gli ioni sodio e gli ioni
potassio. Questo sistema è di fondamentale
importanza nella contrazione muscolare.
In condizioni di lavoro intenso e prolungato
questo meccanismo può essere perturbato
e quindi essere una delle cause dellaffaticamento
del muscolo.
-
Il
ruolo del calcio
Un
altro ione essenziale durante la contrazione
del muscolo è il calcio. Il lavoro
prolungato ed intenso può portare,
sia ad una sua diminuzione, che ad un
abbassamento della sensibilità
del muscolo nei suoi confronti. Anche
questo secondo fattore può portare
allinsorgenza della fatica periferica
-
Il
ruolo dellacidosi
Lambiente
acido che viene a stabilirsi nel muscolo
a causa delle produzione di lattato causata
da un lavoro intenso, è il principale
accusato nel caso della fatica periferica,
ma forse ingiustamente, o meglio è
accusato di troppe colpe forse tutte non
sue
Lelenco
delle conseguenze fisiologiche che i vari
Autori attribuiscono allacidosi è
molto lungo: diminuzione dellattività
della pompa sodio/potassio diminuzione della
fissazione del calcio sulla troponina, dato
il suo antagonismo con gli H+,
diminuzione nella formazione del numero
di ponti acto-miosinici, diminuzione della
velocità di accorciamento delle fibre
ecc.ecc. Lelenco sarebbe veramente
troppo lungo e quindi lo tagliamo, inoltre
tutto questo catastrofico quadro verrebbe
ulteriormente aggravato dallaumento
di temperatura che si registra nel muscolo
durante il lavoro.
Tuttavia
molti ricercatori "scaricano di molte
responsabilità" il lattato prodotto
dal muscolo nellinsorgenza di questo
quadro. In effetti il lattato resta un responsabile,
ma non il maggior accusato nellabbassamento
del pH , ossia dellaumento dellacidificazione
del muscolo.
Vi
sarebbero anche altri fattori che concorrerebbero
allaffaticamento del muscolo come
il ruolo dei fosfati inorganici o quello
dellADP, solo per citarne alcuni.
Non voglio dilungarmi troppo, mi sembra
di essere già stato sufficientemente
"pesante". Vorrei solo sottolineare
che, anche solamente da queste brevi note,
si può facilmente capire come il
fenomeno sia complesso e come sia impossibile
trascinare sul banco degli imputati un solo
colpevole senza lasciarne a piede libero
molti altri.
Non
parleremo della fatica centrale, sarebbe
troppo lungo e complicato, vale comunque
la pena di ricordare che questa è
riconducibile sostanzialmente allazione
di alcune particolari sostanze denominate
"neuromediatori centrali", ossia
sostanze in grado dintervenire sul
passaggio dello stimolo che proviene dal
Sistema Nervoso Centrale ed arriva al muscolo.
Tra queste possiamo ricordare lammoniaca
o la serotonina, ricordando comunque che
anche in questo caso le ipotesi sono molte
e talvolta discordanti.
Un
modello tridimensionale della fatica
Quando per scrivere larticolo sulla
fatica di cui accennavo allinizio,
stavo documentandomi sullargomento,
ho trovato particolarmente interessante
un modello a "tre dimensioni"
del fenomeno della fatica, avanzato recentemente
da alcuni ricercatori, e credo che valga
la pena spendere due parole in proposito.
Secondo
Alcuni autori il rapporto tra lintensità
dello sforzo e la sensazione di fatica può
essere anche interpretato attraverso tre
modelli fortemente interagenti tra loro.
Il
primo modello è il già descritto
modello "classico" della fatica
periferica, denominato appunto "modello
periferico", nel quale i fattori regolatori
e/o inibitori sono esclusivamente di ordine
metabolico (Kay e coll., 2001; Kirkendall,
1990; Fitts, 1994.).
Nel
secondo modello, la cui traduzione italiana
suona come "modello centrale-teleoanticipatorio"
, il meccanismo di controllo della fatica
funziona essenzialmente come un dispositivo
di sicurezza che viene attuato grazie un
meccanismo subcosciente a livello cerebrale.
Questo meccanismo di regolazione viene modulato,
a livello cerebrale sulla base di tutta
una serie di informazioni, sia centrali,
che periferiche, ed ha come scopo quello
di preservare lintegrità strutturale
della fibra muscolare, prevenendo possibili
danni irreversibili a questultima
attraverso una riduzione od un arresto totale
dellattività. Nel modello "centrale-teleoanticipatorio",
il cervello svolge il ruolo di principale
regolatore dellintensità e
della durata dellesercitazione, che
viene mantenuta ad un grado sub-massimale
prefissato in modo tale che il sistema periferico,
ossia il muscolo, non sia mai utilizzato
a livelli massimali (St Clair Gibson e coll.,
2001; Kay e coll., 2001.)
In
questo secondo modello quindi il fenomeno
della fatica può essere considerato
come un vero e proprio "atto anticipatorio
di sicurezza", che abbia lo scopo di
prevenire, sia un eccessivo accumulo di
metaboliti, che un esagerato consumo di
scorte energetiche. Questo tipo di meccanismo
protettivo, potrebbe ad esempio spiegare
il fatto che nel muscolo la concentrazione
di ATP non scenda mai al di sotto del 60-70%
dei valori di riposo, anche durante un esercizio
di tipo esaustivo (Fitts, 1994.). Il modello
"centrale-teleoanticipatorio",
sarebbe quindi il responsabile del decremento
dellintensità dellesercizio
anche in presenza di sufficienti riserve
energetiche, per cui la manifestazione di
fatica sarebbe il risultato di un comando
inibitorio, derivante da una sorta di "calcolo
mentale". Esiste poi un terzo tipo
di modello denominato di "modello di
discussione-cognitiva", nel quale sarebbe
la sensazione di fatica stessa che, a livello
cosciente, utilizzando le antecedenti esperienze
come secondo termine di paragone, regola
lintensità dellesercizio.
Un esempio pratico che ci possa chiarire
il ruolo di questo terzo modello può
essere quello di unattività
sportiva svolta in presenza di spettatori,
in questo caso lattività stessa
può risultare spesso meno gravosa
e la percezione dello sforzo minore, proprio
perché la motivazione generata dalla
fonte esterna, in questo caso gli spettatori,
può ridurre gli input afferenti periferici
provenienti dalla muscolatura (St Clair
Gibson e coll., 2001). Senza entrare in
ulteriori e complicati particolari, direi
che questo modello tridimensionale, ci sottolinea
il ruolo fondamentale della psiche nella
percezione del fenomeno della fatica. Molte
volte infatti uno sforzo sostanzialmente
identico può sembrarci sopportabile,
od al contrario, estremamente gravoso, in
rapporto alla situazione nella quale ci
troviamo od a simili precedenti esperienze.
Molte volte quindi la fatica non è
un fenomeno obbiettivo ma bensì estremamente
soggettivo, per dirla in parole povere,
la fatica molto spesso non è quella
che è ma
quella che sembra.
Perché
nel calcio la regola sembra essere mai più
di due?
Torniamo
alla domanda iniziale postami da Ferretto,
come è possibile spiegare il fatto
che nel calcio la regola sembri essere che
non sia possibile effettuare più
di due prestazioni ad alto livello? Ma soprattutto
come mai questo sembrerebbe esistere solamente
nellambito del calcio mentre in altre
attività sportive la prestazione
sembrerebbe essere più stabile? Forse
la risposta potrebbe essere nellanalisi
del diverso sforzo richiesto nelle differenti
attività sportive e quindi dal diverso
effetto cumulativo del fenomeno della fatica?
Proviamo ad analizzare il modello prestativo
di alcune tra le principali discipline nellambito
degli sport di squadra:
Pallacanestro
Nel
basket la produzione di lattato è
compresa, secondo diversi Autori tra 2.7
e 6,4 mmol . l-1, con una media
di 4.3 ± 1,3 mmol . l-1. La corsa
in avanzamento a ritmo lento e mediamente
di 1175 metri per i play makers , 1300 per
le ali e solamente di 350 metri per i centrali.
Se si considera la corsa in avanzamento
a ritmo medio, questi valori passano a 1125
per i play makers, 1850 metri per le ali
e 1700 metri per i centrali. Infine se consideriamo
la corsa in avanzamento a ritmo veloce questi
valori passano a 1200, 1050 e 725 metri
sempre in rapporto ai tre ruoli citati.
La
media generale può essere quindi
considerata pari a 1163 ± 453 metri.
Per
quello che riguarda la frequenza cardiaca
media registrata nel corso della competizione
ritroviamo 175 ± 15 p/m per i play makers,
171 ± 13 p/m per le ali e 170 ± 13 per in
centrali, con una media generale uguale
a 172 ± 2 p/m.
Il
consumo di ossigeno registrato in competizione
è pari all80 ± 2% del VO2
max.
Pallavolo
La
produzione di lattato in competizione è
mediamente di 2.40 ± 0.47 mmol . l-1
.
La
frequenza cardiaca media in gara uguale
a 144 ± 11 p/m.
Il
consumo di ossigeno registrato in competizione
è mediamente il 55 ± 3.1% del VO2
max.
Rugby
La
produzione di lattato nel rugby è
mediamente 7.6 ± 2 mmol . l-1
.
La
media di percorrenza è 6.7 ± 4 km
, il range è in effetti notevole
e va da mediamente dai 3.8 km per i giocatori
del pacchetto di mischia ai 9.6 delle terze
linee.
La
frequenza cardiaca media durante la gara
è pari a 145 ± 11 p/m.
La
percentuale di VO2 max utilizzata
in situazione di competizione è mediamente
del 52 ± 5.6 % (Reilly, 1994), questo dato,
in verità abbastanza sorprendente,
è giustificato dal fatto che le azioni
di gioco nel rugby sono molto brevi, il
56% è infatti inferiore ai 10
e solamente il 15% supera i 20
(Williams, 1976)
Pallamano
La
produzione di lattato è uguale a
6.8± 4.3 mmol . l-1.
La
media di percorrenza è di 5.5 ± 2
km
La
FC media è pari a 177 ± 12 p/m.
Il
consumo di ossigeno registrato in competizione
è pari al 79 ± 2.7% del VO2
max.
Proviamo
a prendere questi pochi dati, che ci danno
un visione, sicuramente parziale, ma comunque
già discretamente significativa,
dello sforzo fisiologico richiesto durante
la prestazione agonistica in queste discipline
sportive, e confrontiamoli agli stessi dati
relativi al calcio. Ricordiamo soltanto
che nel calcio la produzione di lattato
registrabile in partita va dalle 10 mmol
. l-1 (Agnevik, 1975) alle 4.4
(Bangsbo, 1991) con una media di 5.6 ± 2.3
mmol . l-1.
La distanza media percorsa in gara è
di 10.800 ±1937 metri, anche se le differenze
di percorrenza trai i diversi ruoli sono
significative.
La
FC di competizione è mediamente pari
a 175 ± 9 p/m (Balsom, 1999) ed infine la
percentuale di VO2 max utilizzata
in gioco è mediamente del 75 ± 3
%.
|
Lattato
(mmol . l-1)
|
Distanza percorsa (m)
|
FC (p/m)
|
Utilizzo VO2max (%)
|
Calcio
|
5.6 ± 2.3
|
10.8000
± 1937
|
175 ± 9
|
75 ± 3
|
Pallacanestro
|
4.3 ± 1.3
|
1163 ± 453
|
172 ± 2
|
80 ± 2
|
Pallavolo
|
2.40 ± 0.47
|
--------------------
|
144 ± 11
|
55 ± 3.1
|
Rugby
|
7.6 ±
2
|
6700 ± 4000
|
145 ± 11
|
52 ± 5.6
|
Pallamano
|
6.8 ± 4.3
|
5864 ± 2000
|
177 ±
12
|
79 ± 2.7
|
Tabella
1 : Valori medi e deviazione standard (±)
di produzione di lattato, distanza percorsa,
FC ed utilizzo di VO2max, registrati
nel corso della competizione, nel calcio,
nella pallacanestro, nella pallavolo , nel
rugby e nella pallamano. In rosso sono evidenziati
i valori medi più elevati registrati
nellambito del parametro considerato.
Come
è possibile osservare dalla tabella
1, il calcio presenta dei valori maggiormente
elevati, rispetto agli altri sport considerati,
solamente per ciò che riguarda la
distanza media percorsa in competizione,
anche se considerando la notevole variazione
standard del valore di percorrenza riguardante
il rugby (± 40000 metri), si può
considerare questo parametro molto simile
per le due discipline. Possiamo quindi dire
che non vi sarebbe nessuna ragione fisiologica
apparente, almeno per ciò che riguarda
questi indicatori, che possa giustificare
una maggiore propensione al fenomeno del
sovraffaticamento nel calcio. Il solo fatto
della maggior distanza percorsa in competizione
infatti non può essere assunto come
giustificazione plausibile, anche se potrebbe,
perlomeno in parte, spiegare il fenomeno
di sovraccarico funzionale della muscolatura,
che spesso sfocia nellinfortunio,
così frequente nel calcio. Si potrebbero
a questo punto addurre delle ragioni di
tipo psicologico, probabilmente infatti
è difficile mantenere una condizione
mentale, in termini di giusta concentrazione,
in presenza di numerosissimi impegni che
oltretutto impongono un sovraccarico funzionale
di tutto rispetto, ma non essendo questo
il mio campo specifico dintervento,
rilancio la palla a chi si interessa di
questo determinato aspetto della prestazione.
Per cui la domanda postami da Ferretto,
resta "una bella domanda senza purtroppo
una precisa risposta", almeno per ciò
che mi riguarda. Permettetemi in conclusione
una digressione molto personale e molto
poco scientifica: molte volte ho notato,
seppur empiricamente, una forte correlazione
tra la capacità di sopportare il
dolore fisico (come ad esempio il poter
comunque continuare a giocare anche dopo
aver subito un trauma) e la capacità
di sopportazione della fatica in senso lato,
e quindi la capacità di avere una
continuità di rendimento elevata.
In questo caso, credo che tutti lo sappiano,
i rugbisti sono dei veri esempi
..
e se la soluzione per i calciatori fosse
quella di diventare tutti un po più
rugbisti?
|